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Editoriale di presentazione (di Antonia Ferri)
Dentro il tracciato della sceneggiatura del film Shiva Baby una frase resta impressa su tutte: «Per me il femminismo è un filtro, una lente per interpretare le cose». L’intersezionalità sta diventando soprattutto questo. Pratica e teoria, è quel bisogno di guardare all’esperienza umana unendo i puntini. In un contesto comune di società, significa riconoscere che discriminare sulla base di caratteristiche individuali come l’etnia, il credo, l’orientamento sessuale, il genere e la classe sociale è una forma di oppressione unitaria. E che non esiste giustizia sociale per un individuo razzializzato senza quella per tutte le altre categorie. Un mondo dove esiste anche solo una persona discriminata in base a come o dove è nata, è un mondo in cui potenzialmente un giorno anche noi potremo essere quella persona. Se non lo siamo già.
Nel mese dell’8 marzo delle rivendicazioni femministe e di genere, la pratica dell’intersezionalità ricorda come i diritti di ogni persona rendono concreti i nostri. Che siamo ragnatele di collegamenti. Reti come quelle dei social, che muovendosi sempre più a destra sono sempre meno uno spazio sicuro per la comunità trans. Un fenomeno che riguarda, non solo negli Stati Uniti, anche i documenti d’identità, che faticano a riconoscere soprattutto le persone non binarie. Così come l’intelligenza artificiale, incapace di difendere i propri giudizi dai pregiudizi con cui la società considera le persone. Contesti concreti e astratti che discriminano anche a causa del fallimento delle DEI, le politiche di diversità, equità e inclusione.
Ma la marginalizzazione può arrivare anche da dentro le stesse comunità, come l’esperienza di una persona disabile e queer è capace di raccontare. O dagli ospedali, dove anche le diagnosi di ADHD possono essere un privilegio. In questo numero si parla moltissimo di genere: in politica, dove il potere si femminilizza nella forma, come nel caso della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ma non nella sostanza, perché i termini patriarcali di un governo di destra restano chiari. Se ne parla nella scienza, come luogo di emancipazione e di ostacoli. Nel cinema, che conta le sceneggiatrici sulle dita di una mano e dentro i film, capaci di mostrare il desiderio femminile. E nello sport. Per le donne migranti, inoltre, esercitare una vita politica attiva può essere fonte di rischio. Mentre di fronte al problema dell’endometriosi spesso si trovano da sole.
Passando dall’insurrezione degli studenti in Serbia alla storia di una donna messicana migrante che ora ne aiuta altre, si arriva dritto al cuore e risultato ultimo dell’oppressione, la rabbia. Quella femminile e di ogni persona oppressa, che serve pour qu’un jour l’engrenage soit brisé (perché un giorno l’ingranaggio si rompa), come canta la rapper francese Keny Arkane, e che lotta insieme all’amore che costruisce, come scriveva bell hooks, in modo rivoluzionario.
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