Sono tempi duri per la causa progressista. Le destre estreme avanzano nei due continenti dell’occidente: dall’Italia di Giorgia Meloni, che ha iniziato il trend in Europa, fino al ritorno negli Stati Uniti di Donald Trump, ultima manifestazione di questo tipo in ordine di tempo. I governi della nuova destra sembrano puntare a una forma di autoritorismo inedita contro cui non ci sono anticorpi. Se da un lato l’estetica e l’odio verso le minoranze sono un elemento di continuità con le destre del passato, a essersi evoluta è la retorica della loro propaganda.
Le radici e le continuità del non cambiamento
I principali social network, in questo contesto, stanno voltando le spalle non solo al progressismo, ma più in generale alle idee su cui si fonda l’intera Silicon Valley (per lo meno, quella percepita da chi non è un tecno-iniziato). Da questo punto di vista, la decisione di Meta di transitare dalla moderazione del fact checking alle community notes sul modello di X/Twitter – e quindi abbandonare un controllo dal vertice in favore di un social in cui gli stessi utenti si dovrebbero auto-regolamentare – è stata vissuta come un tradimento. L’azienda, che è stata simbolo della potenza rivoluzionaria del progressismo del Web, è stata la più efficiente e stringente sulla moderazione e ora giustifica la sua transizione con parole che ricalcano quella dei supporters del movimento trumpiano Maga, secondo cui l’Europa “brutta e cattiva” imporrebbe un regime censorio a scapito del pensiero libero. L’idea di fondo è che dalla saggezza collettiva emergerebbe la verità senza il bisogno di fact checkers (come in Wikipedia, che però ne hanno). La realtà è che, nonostante ci siano legittime basi filosofiche, si tratta solo di una scusa per tagliare i costi aziendali e salire sul carrozzone dei vincitori di questa ultima ondata politica.
L’ideale progressista di Meta (e anche del fu Twitter) è sempre stato una facciata e il seme di questa nuova destra è da ricercarsi proprio nel sottobosco dei social. Angela Neagle ricostruisce in modo approfondito il passaggio dal web più remoto alla politica reale degli estremismi nel suo Contro la vostra realtà: il punto di svolta per gli estremisti è stato uscire da luoghi più di nicchia come 4chan e Tumblr per affermarsi nel mondo mainstream.
Per anni, è sembrato che fosse la sinistra a dominare: le identity politics sono state il simbolo di una nuova ondata di attivismo al grido di intersezionalità. Quasi tutto il femminismo si diceva intersezionale prima e transfemminista poi; le istanze delle questioni di genere, Lgbtqia+, razziali e delle disabilità si fondevano in quello che appariva come minestrone ideologico, percepito come la nuova norma sui social. Questa aderenza ai valori era nel migliore dei casi una facciata, quando non un insieme di washing senza alcuno sforzo per celare la propria ipocrisia. La vittima maggiore è stato il movimento femminista, di cui molti brand tentano di appropriarsi con la conseguenza di boicottare il movimento stesso, parassitando i suoi ideali e inquinandone l’immagine.
Ma questa modalità contraddittoria non è inedita: non è una novità che Mark Zuckerberg sia un finanziatore del Partito repubblicano da molti anni e che le sue piattaforme spingano i contenuti complottisti e di estrema destra. Non c’è modo di dimostrare l’intenzionalità di questo fenomeno, anche se sembrerebbe non ci sia bisogno di promuovere attivamente questo tipo di contenuti affinché diventino virali. Nonostante si sforzi di moderare i suoi video per essere più family friendly e brand friendly, YouTube soffre dello stesso problema; il fu Twitter è stato pioniere di una certa moderazione proprio per ripulirsi da una comunità tossica di troll che fioriva da ben prima dell’acquisto di Musk.
La comunità trans, vittima dell’odio rinnovato
Sui motivi del fallimento di questa sinistra è stato detto di tutto: va comunque sottolineato che l’intolleranza verso la retorica moralista e spocchiosa degli estremisti di sinistra non è recente. Questa, detta woke (con un’espressione nata come presa di posizione di chi è consapevole delle politiche razziste, che l’alt-right ha trasformato in una sineddoche della sinistra tutta) ha creato un risentimento internazionale che oggi ha riverberi anche in Europa. Va anche detto che le identity politics (un tipo di attivismo basato su una visione personale e identitaria della società) sono in realtà una degenerazione dell’intersezionalità, tanto che la stessa coniatrice del termine ne ha preso le distanze. L’internazionalità infatti è l’esatto opposto, una lente di osservazione per la repressione che non suggerisce direttamente direttive per combattere l’oppressione e non riduce l’individuo a una somma di identità fisse e preconfezionate. Fenomeni come la cancel culture e l’Addpocalypse hanno fatto sì che le legittime critiche alle falangi più ideologiche ed estreme della sinistra americana diventassero poi la fonte di ogni piagnisteo della destra. Da un lato la moderazione delle grandi piattaforme nasconde quesiti filosofici legittimi e complessi (per esempio: è giusto che siano dei privati a stabilire i limiti della libertà di parola?), tuttavia c’è chi sul solo “non si può più dire niente” ha costruito una carriera.
Di fatto, la libertà di parola diventa uno scudo ideologico per giustificare la libertà di dire le peggiori atrocità, salvo poi applicare due pesi e due misure quando si toccano i temi della tanto vituperata sinistra woke. Se il razzismo non è mai di fatto mai scomparso e trova sempre nuovi modi subdoli per sopravvivere, la comunità Lgbtqia+ sta facendo le spese di questa ultradestra al potere: in particolare, sembra che le persone trans siano diventate il capro espiatorio di ogni male. Comprendere il perché non è immediato: di certo non c’è mai stato un momento in cui la comunità trans ha avuto vita facile, ma l’accanimento che vediamo in questa fase è inedito.
Mentre l’omosessualità si sta pian piano sdoganando anche nella destra moderata, il nuovo spauracchio è la cosiddetta teoria gender. In cosa consista non è chiaro a nessuno, proprio perché l’attivismo all’interno della stessa comunità Lgbtqia+ è accompagnato da una profonda discussione interna. Non esiste una teoria unica in senso scientifico che descriva una paradigma maggiormente accettato al suo interno. La complessità di un dibattito in continua evoluzione ha fatto sì che si preferissero le risposte semplicistiche dell’altra parte politica. Anche non a destra. Da una parte troviamo il movimento MOGAI, con la pretesa di catalogare ogni genere possibile, dall’altra integralisti che rispondono con slogan quali “ci sono solo due generi e infinite malattie mentali” che rassicurano i bias di conferma di chi conosce solo idee molto radicate sulle questioni di genere e sessualità.
Dunque, la comunità trans, in un tempo di instabilità e caos, chiede a tutti di fare uno sforzo di messa in discussione della propria visione del mondo. Al contrario, l’estrema destra ha preso la naturale incomprensione di ciò che non si vive in prima persona e l’ha cavalcata per creare il nemico perfetto. Una comunità numericamente molto piccola, fino a pochi anni fa ignorata e lasciata sola con le proprie difficoltà, ora viene improvvisamente osteggiata e trattata come nemesi, in un’emergenza che di fatto non esiste. I social, privi di moderazione, diventano la camera di risonanza perfetta per creare notizie false. Se la lobby gay è così potente, com’è che esistono fenomeni di oppressione e discriminazione evidenti e diffusi?
La comunità trans, emarginata e già vessata da stereotipi, si è trovata al centro di una tempesta perfetta. Le grandi piattaforme virano a destra per opportunismo e chi ha meno potere sociale ne paga il prezzo, dopo che per anni il mondo virtuale ha rappresentato anche una sorta di zona conforto in una realtà che sembra cancellare la propria esistenza.