La vulnerabilità è una condizione che espone alcune persone, più di altre, a pericoli che rendono la vita una vitaccia. Ci si trova così ad affrontare rischi economici (difficoltà a ottenere un lavoro o una promozione che si meriterebbe), minacce alla propria sicurezza personale (non per tutti uscire di casa la sera rappresenta una decisione facile) o, ancora, traiettorie di vita instabili, incerte, prive di possibilità di scelta fondamentali come, ad esempio, dove spostarsi per garantirsi un futuro migliore. In un sistema aperto, in una democrazia parlamentare come la nostra, la ricetta prevista in questi casi prevede un’attivazione politica: essere, insomma, cittadini attivi che sfruttano la competizione elettorale, gli strumenti di democrazia diretta o, più banalmente, una denuncia per far valere i propri diritti. Di nuovo, questo dovrebbe essere facilmente accessibile per tutti, a maggior ragione se si rientra tra chi sconta sulla propria pelle una condizione di vulnerabilità. Ma così non è, al punto che attivarsi politicamente se si è donne o migranti rappresenta una scommessa, se non una fonte di minacce alla propria incolumità.
Gemma Dipoppa, assistant professor presso la Columbia University, nei suoi lavori di ricerca si è occupata di queste problematiche che, come lei stessa ci racconta, rappresentano alcune delle principali «sfide moderne allo Stato». Prima di concentrarsi sul tema della violenza sulle donne che fanno politica, Dipoppa si era interessata agli attacchi contro i politici collegati agli attacchi mafiosi. «Raccogliendo i dati, ci siamo accorti che c’era una sproporzione nel numero di attacchi contro le donne», ci dice. «Emergeva una chiara correlazione rispetto al genere. Abbiamo quindi sfruttato i dati dell’ong Avviso Pubblico, che nel rapporto Amministratori sotto tiro ha raccolto informazioni su tutti i politici che hanno ricevuto intimidazioni e minacce tra il 2010 e il 2022». Il rapporto contiene più dati di quelli che qualunque studio sulle violenze contro i politici e contro le donne abbia mai raccolto.
Dipoppa spiega che per il disegno di ricerca «il grande problema è la compresenza di altri possibili fattori capaci di scatenare questi attacchi. Per risolverlo abbiamo usato il regression discontinuity design: abbiamo confrontato, cioè, solo sindache che hanno vinto l’elezione per un margine minuscolo di voti rispetto a un candidato uomo». Se ci si concentra su margini così ristretti, i diversi candidati si assomigliano moltissimo, «al punto che, per uno strumento statistico, sono indistinguibili dal punto di vista di tutte le caratteristiche che si possono testare, come ideologia, età, educazione, esperienza politica». Altrettanto indistinguibili sono le caratteristiche delle città nelle quali questi sindaci governano considerando parametri come ricchezza, dimensione, urbanizzazione. «Questo ci ha permesso di ricostruire le condizioni di un esperimento che ipoteticamente potrebbe essere stato pensato così: considerate due città identiche, qual è la probabilità di osservare un attacco all’amministrazione se chi la governa è donna o uomo?», chiosa Dipoppa.
Secondo i risultati dello studio, una amministratrice avrà una probabilità tre volte superiore di essere oggetto di un attacco rispetto a un collega uomo mentre, in un caso su tre, non si ricandiderà per un secondo mandato. Così si spiegherebbe, in parte, il fenomeno della sottorappresentazione politica femminile, evidenziata da dati come quello della percentuale di sindache (15 per cento) elette nei comuni italiani.
La vulnerabilità e le difficoltà ad attivarsi politicamente riguardano anche le persone che arrivano nel nostro Paese: come mostra il lavoro di Dipoppa, se si è migranti irregolari vittime di sfruttamento denunciare un caporale può implicare conseguenze come l’impossibilità di trovare un nuovo lavoro, il rimpatrio e, nei casi più gravi, azioni di vendetta da parte della criminalità organizzata. Nonostante ciò, lo studio mostra come la soluzione della legalità e del coinvolgimento attivo delle persone vittime di sfruttamento abbia effetti importanti su più livelli.
Dipoppa cita un’iniziativa del sindacato Cgil, grazie alla quale «i lavoratori immigrati di diverse città italiane sono stati raggiunti e informati su quali fossero i loro diritti, su come fare per denunciare situazioni di sfruttamento e, più in generale, sulle tutele a loro disposizione». Di conseguenza, dai quotidiani è emersa una maggiore copertura delle notizie sul caporalato, spesso perché i lavoratori immigrati hanno denunciato di propria iniziativa la loro condizione. La professoressa puntualizza che «dal confronto con le città di controllo, emerge che il fenomeno non è causato dal sindacato, ma dai lavoratori stessi: l’effetto sulle notizie è assente nei posti dove il sindacato ha indagato, senza però fare una campagna di informazione per gli immigrati». Un secondo effetto messo in evidenza dalle rilevazioni è legato a un maggiore intervento della polizia per capire quali sono le condizioni di lavoro nelle campagne e sequestrare beni alle organizzazioni mafiose coinvolte nel racket degli immigrati. Dipoppa, a riguardo, spiega che «ci sono stati anche effetti positivi sull’opinione delle persone del posto, che tendono a essere più solidali quando si rendono conto di quanto la vita dei migranti sia difficile».
Studiare come dei tratti innati possono condizionare l’accesso ai diritti fondamentali è un buon modo per comprendere alcuni degli effetti fondamentali delle disuguaglianze. Tratti come il colore della pelle o il genere aumentano i rischi per chi partecipa alla vita pubblica e sottopongono persone vulnerabili a scelte impossibili: accettare un lavoro sottopagato o rischiare un rimpatrio forzato? Sfidare un avversario politico o vedere la propria auto avvolta dalle fiamme? In molti casi, la scelta è tra una vita giusta e la propria pelle.