«La mia primissima decisione come candidato del partito nel 2020 è stata scegliere Kamala Harris come mia vicepresidente», ha scritto in un post su X il presidente americano uscente Joe Biden. «Ed è stata la migliore decisione che ho preso. Oggi voglio offrire il mio pieno appoggio e sostegno a Kamala come candidata del nostro partito quest’anno. Democratici – è tempo di unirsi e battere Trump. Facciamolo».
Con questo endorsement, dopo il suo dietrofront nella corsa al secondo mandato, Biden ha annunciato al mondo – appena cento giorni prima delle elezioni – chi sarebbe stata la sua erede ideale per sfidare l’ex presidente Donald Trump. Un’indicazione che il Partito democratico ha accolto favorevolmente, ratificandone la nomina ufficiale durante la convention di Chicago che si è svolta dal 19 al 22 agosto: un appuntamento di fatto solo cerimoniale, essendo Harris anche l’unica candidata.
Harris, la figlia legittima del sogno americano
Del resto, la vicepresidente americana è apparsa subito la donna giusta al momento giusto: una connotazione politica ben più forte di talento e competenze. I tempi strettissimi hanno servito a Harris l’assist perfetto per vedersi ergere a icona nella storia presidenziale americana: già prima donna vicepresidente, potrebbe diventare anche la prima donna nera di origini asiatiche a guidare gli Stati Uniti d’America. La sua storia personale e professionale è un’occasione ghiotta che il partito democratico – inclusi i membri più scettici – non poteva rinunciare a capitalizzare.
Kamala Devi Harris, californiana di origini giamaicane e indiane, è figlia di due intellettuali brillanti che al tempo emigrarono in cerca di riconoscimento e di futuro. Elementi che trovarono negli ambienti accademici. In questo senso, si potrebbe dire che Harris sia figlia legittima del sogno americano, grazie al quale l’autodeterminazione della candidata democratica è arrivata puntale – non senza difficoltà – sovvertendo le subdole barriere del genere e dell’etnia, anzi rivendicate con legittima fierezza. Si laurea prima alla Howard University di Washington D.C. in Scienze politiche ed economia e poi a San Francisco in legge, dando avvio alla sua carriera forense come pubblico ministero nell’ufficio del procuratore distrettuale; ruolo che assume nel 2003 – come vice – prima a Oakland, sua città natale, e poi a San Francisco l’anno seguente, fino a diventare procuratrice generale della California nel 2011.
Cinque anni più tardi, la sua elezione al Senato degli Stati Uniti – spalleggiata dall’allora presidente Obama con il vice Biden – ha sancito ufficialmente l’ingresso di Kamala Harris in politica. Harris ha in seguito tentato di misurarsi con lo stesso Biden nella nomination democratica, ottenendo comunque il ruolo di vicepresidente all’indomani della vittoria del suo collega contro Trump. A inaugurare la nuova amministrazione Biden ci ha pensato però la pandemia che, nel dramma delle morti e della corsa ai vaccini, ha indotto Biden a delegare a Harris alcune delle questioni più importanti (e controverse): prime tra tutte, l’immigrazione e il diritto di voto, che avrebbero richiesto riforme radicali invise a Capitol Hill. Non a caso, la vicepresidenza della candidata non è brillata per iniziativa o protagonismo, a dispetto del suo programma elettorale, da cui traspare come una «moderata pragmatica» (così l’ha definita il New York Times).
Kamala Harris, un posizionamento molto simbolico ma poco a fuoco
Il suo, infatti, è un programma progressista e ben strutturato sul fronte dei diritti civili, in particolare per tutelare l’aborto dopo gli sviluppi della sentenza Roe v. Wade. Lo stesso vale per la questione ambientale, verso cui ha dimostrato negli anni una vocazione da attivista, sposando il Green New Deal ed esponendosi contro la pratica estrattiva del fracking.
Ci sono però delle zone grigie nelle posizioni di Harris: in primis l’immigrazione, verso la quale – secondo molti membri delle minoranze etniche e delle comunità discriminate e marginalizzate – si è dimostrata inadeguata quando non addirittura respingente (come in una nota visita in Guatemala, quando disse: «Non venite. Vi rimanderemo indietro»).
Di pari passo, anche le idee espresse in merito alla gestione del conflitto in Ucraina e a Gaza lasciano dubbi sulle reali intenzioni di Harris, le cui dichiarazioni in merito suonano piuttosto cerchiobottiste: da un lato denuncia la «catastrofe umanitaria» e la necessità di un cessate il fuoco, dall’altro però ribadisce – in piena conformità all’attuale linea della Casa Bianca – il sostegno incondizionato a Israele nella sua lotta contro Hamas.
Decisamente meno morbide sono invece le posizioni dell’ex procuratrice in tema legislativo, ragion per cui si era guadagnata nel suo ambiente il soprannome di poliziotta per via dell’alto numero di condanne che lei stessa si vantava di aver ottenuto, nonché per la proposta di far incarcerare i genitori degli alunni che disertavano la scuola. Non ultima, la proposta di abolire la pena di morte, di cui – contrariamente alle dichiarazioni passate sul tema – non c’è più traccia.
Parafrasando il monito che la madre le ripeteva quando era bambina, «potresti essere la prima. Ma assicurati intanto di non essere l’ultima», forse Harris dovrebbe preoccuparsi intanto di esserlo, la prima. Perché tutte le prime volte finiscono, prima o poi.