È soccer, non football. Un po’ come quando nel primo film della saga di Harry Potter Hermione Granger redarguisce il compagno Ron Weasley nell’esecuzione di una magia («È leviòsa, non leviosà»), quando parliamo di calcio negli Stati Uniti occorre partire da questa prima specifica. La seconda, forse, è che se l’egemonia politica degli Usa sul mondo è in fase calante rispetto alle ultime fasi della Guerra fredda e agli anni Novanta, quella calcistica non è mai stata sfiorata, forse neppure ipotizzata.
«Il senso degli Usa per il calcio è sempre stato diverso da quello, per dire, della Russia putiniana o dell’Arabia Saudita di oggi, dove il roster era (ed è) il parco giochi accondiscendente a dinamiche di soft power», spiega Fabrizio Gabrielli, scrittore e traduttore di libri sul calcio americano. Il paragone può reggere, ma con più successo, con «Cina e India, dove attraverso conformazioni altamente spettacolarizzate (e spettacolarizzanti) si cercava l’innesto per un movimento che partisse dalla passione e arrivasse ai risultati. Ecco, forse sotto questo punto di vista negli States ci si è riusciti molto meglio». Di politico, invece, nel calcio americano c’è poco. La lega statunitense si professa giovane e progressista, ma vieta ogni manifesto politico ai tifosi. Nel 2019 furono rimosse bandiere pro-Trump a Portland, mentre il centrocampista Alejandro Bedoya protestò contro il Congresso per le sparatorie a Dayton ed El Paso. In generale, però, il calcio negli Stati Uniti è visto come uno sport dalle origini operaie, poco diffuso nelle aree rurali e quindi più popolare negli Stati blu.
La Mls (la Major League Soccer, l’equivalente a stelle e strisce della nostra Serie A) nasce nel 1993, ma il calcio oltreoceano esiste sin dalla seconda metà dell’Ottocento. Qui in Italia, però, i primi ricordi del football tramutato in soccer coincidono con una squadra, i New York Cosmos. Il club fu fondato dalla Warner Bros nel 1971, quattro anni più tardi della creazione della North American Soccer League (Nasl), a sua volta nata dalla fusione della United Soccer Association e della National Professional Soccer League. Da Pelè a Franz Beckenbauer, passando per le bandiere della Lazio scudettata Giorgio Chinaglia e Pino Wilson, tante stelle del calcio europeo emigrarono oltreoceano. George Best scelse prima i Los Angeles Aztecs, poi i Fort Lauderdale Strikers e i San Jose Earthquakes. Il movimento diede segnali di crescita in termini di spettacolarizzazione delle partite e di presenze allo stadio, ma dal 1984 al 1993 non si disputarono campionati ufficiali fino all’esordio, appunto, della Major League.
Secondo Gabrielli, «la cosiddetta europeizzazione del soccer è una grande fallacia: non credo sia attualmente, e dubito lo fosse fin dall’inizio, un obiettivo quello di avvicinarsi al modello europeo. Semmai, il macromondo a cui si è sempre più strizzato l’occhio è stato quello sudamericano, anche con la creazione di uno spirito identitario cittadino che appartiene più a quelle latitudini». Ma il calcio negli Usa si è sviluppato più come allegato della cultura pop e cinematografica che come sport competitivo: i giocatori dei Cosmos – ha scritto Gabrielli su Ultimo Uomo – «erano un hype». Tanto la vecchia Nasl quanto l’odierna Mls hanno poco a che fare con il calcio europeo. «Giocoforza, i calciatori veri, i professionisti con una carriera solida, hanno scelto gli States a fine carriera, sempre. Anche i primi germinali tentativi di Mls, in fondo, erano un clamoroso e meraviglioso cimitero degli elefanti: Hristo Stoičkov, Carlos Valderrama, Roberto Donadoni e Walter Zenga», ricorda Gabrielli. «Il focus principale è sempre stato quello di accaparrarsi una fetta di pubblico potenziale gigante, non necessariamente seguendo le stesse dinamiche dell’Europa (i rigori shootout, calciati in movimento invece che dal dischetto, ne sono un buon esempio)».
Casi di giocatori che hanno scelto di chiudere la loro carriera oltreoceano, spesso italiani o comunque della Serie A, continuano a esserci tutt’oggi. Da Lorenzo Insigne a Federico Bernardeschi, emigrati in Canada, fino a Giorgio Chiellini e Olivier Giroud a Los Angeles, con il francese arrivato in città dopo gli ultimi anni al Milan. «Zlatan Ibrahimovic e David Beckham, per esempio, hanno avuto parentesi post Mls piuttosto interessanti e performanti. Questa nuance è particolarmente vistosa, piuttosto, per calciatori sudamericani anche all’apice della carriera (o a ridosso di esso)», aggiunge Gabrielli. Da Thiago Almada a Miguel Almirón, da Facundo Farías a Federico Redondo, oggi al Miami, fino a Ezequiel Barco, Sebastián Driussi, Brenner. «Tutti giocatori che, anziché catapultarsi subito in Europa con il rischio di bruciarsi o accettare i petroldollari, hanno scelto gli States come fecondo laboratorio intermedio prima di un (ipotetico) balzo». Ecco perché oggi occorre guardare al calcio statunitense più come a un movimento centrifugo che centripeto. Secondo Gabrielli, infatti, «la Beckham rule ha posto precisi paletti che hanno spinto i club a cercare giovani prospetti che possano poi essere venduti per capitalizzare, più che atleti pronti per una retirement league». In questo senso, l’esempio più lampante riguarda le due squadre della Grande Mela. «Il City Football Group e RedBull hanno reso i club statunitensi una specie di laboratorio in cui creare giocatori da destinare poi alle franchigie più prestigiose in Europa: per il New York City Fc, in particolare, si è venuto a creare piuttosto lo status di punto intermedio tra le varie società satellite del gruppo sparse nel mondo (anche in Sudamerica) e l’Europa». Manchester City in testa.
Insomma, qualche pregio questo calcio americano ce l’ha. Un altro, per esempio, è la capacità di reinventarsi. Per Gabrielli il picco della Mls risale a dieci anni fa, mentre uno dei recenti momenti bui è la mancata qualificazione della Nazionale a Russia 2018, quando neanche la nostra Italia partecipò. Adesso, i mondiali Usa-Canada-Messico 2026 rappresentano un «motore propulsivo importantissimo», così come la Copa America disputata e ospitata quest’estate, il mondiale per club del prossimo anno e quello femminile del 2027. E l’idea di scegliere la Mls resta valida per molti calciatori europei che credono nel seguito di questo campionato. Quando chiediamo a Gabrielli, allora, se più che di europeizzazione del calcio nordamericano stiamo assistendo molto più all’americanizzazione del football nel vecchio continente, lui non esita: «Questo è un punto importante: per quanto non ci piaccia, racconta una realtà insindacabile, e cioè che dal punto di vista della spettacolarizzazione dello sport gli States sono sempre stati i trendsetter. Non direi che lo stesso modello sia così infallibile anche dal punto di vista di gestione delle società, basti vedere quello che hanno combinato al Chelsea [controllato dal 2022 da un consorzio statunitense, con la strategia di far firmare contratti lunghissimi per spalmare i prezzi dei cartellini e una rosa di giocatori di dimensioni eccessive, ndr], ma insomma: lo show nel soccer è sicuramente un aspetto imprescindibile. In Europa abbiamo abbracciato soprattutto un modello Usa, quello della comunicazione. Ecco: sotto questo aspetto, la Mls è sempre stata, fin dagli albori, molto avanti».
Ancor di più lo è stato e continua a esserlo, rispetto ai campionati europei, il calcio femminile statunitense. La nazionale Usa vinse i mondiali nel 1999, un’edizione che ebbe grande seguito sugli spalti con una media di 50mila presenze per i match degli Stati Uniti e di 20mila per tutti gli altri. Oggi, a distanza di un quarto di secolo, il soccer professionistico delle donne ha continuato a crescere – come ha raccontato Krysyan Edler su Deseret News – e dal 2013 la National Women’s Soccer League conta 14 club e investimenti in costante crescita.
L’americanizzazione del calcio europeo, invece, vede oggi la presenza di tante proprietà made in Usa: solo nella Serie A 2024-2025 sono dieci su venti. Per non parlare delle tournée estive che si disputano oltreoceano con amichevoli tra i principali club del vecchio continente, contribuendo ad aumentare il numero medio di tifosi negli stadi nordamericani, oggi mediamente sopra i 20mila a partita. Sul piccolo schermo, invece, le partite si guardano su Apple Tv. Mentre si avvicina il 2025, quando la Mls compirà i suoi primi trent’anni di attività, i margini da colmare sul calcio europeo restano evidenti anche in termini salariali. L’edizione corrente vede 29 squadre partecipanti (il prossimo anno saranno trenta con San Diego) e il valore medio dei club continua a crescere con Los Angeles FC, Atlanta United FC, Inter Miami e LA Galaxy oltre il miliardo. Secondo quanto comunica la stessa Mls, dallo sbarco in Florida della “pulga” il valore dei club è cresciuto di 3,2 miliardi di dollari. Ma lo stipendio medio dei giocatori resta fermo a poco meno di 600mila dollari. Su questo punto l’effetto Messi, che dal 2023 gioca per la squadra della capitale della Florida, ancora non c’è, ma come si dice: the show must go on.