A settembre la Criterion Collection, casa di distribuzione nota per il restauro e la pubblicazione di film di grande rilevanza culturale e storica apprezzatissima dai cinefili, ha lanciato sul suo servizio di streaming una raccolta di alcuni dei più grandi legal thriller nella storia del cinema. Miti come La parola ai giurati, Anatomia di un omicidio e Philadelphia figurano accanto a visioni più leggere come Larry Flint – Oltre lo scandalo, la commedia Mio cugino Vincenzo o lo strappalacrime Kramer contro Kramer. «L’aula di tribunale è il sommo palcoscenico – un teatro vivente dove drammi umani di verità, giustizia ed etica sono messi in atto con conseguenze spesso mortali», recita la descrizione. Il miglior cinema celebra la miglior tradizione giudiziaria, insomma. Eppure, di recente la fiducia nell’idea che nei tribunali la giustizia trionfi ha subìto un duro colpo, soprattutto a causa della crescente politicizzazione della Corte Suprema statunitense. Dalle nomine trumpiane, il massimo organo giudiziario degli Stati Uniti sembra aver perso lo smalto di un tempo, con un tasso di approvazione che oggi oscilla tra il 40 e il 45 per cento. Ci sono importanti differenze a seconda dell’orientamento politico: secondo la società di consulenza Gallup è solo il 29 per cento dei democratici ad avere un’opinione positiva della Corte, ma la percentuale schizza al 73 per cento tra i repubblicani. Secondo un recente sondaggio condotto da Associated Press-NORC Center for Public Affairs, «sette americani su dieci credono che i giudici dell’alta corte siano influenzati più dall’ideologia, mentre solo circa tre su dieci adulti statunitensi pensano che i giudici esercitino un bilanciamento agli altri poteri dello Stato grazie alla loro imparzialità». Un verdetto schiacciante.
La sfiducia crescente è il risultato di una Corte additata dai media come estremista per la netta maggioranza conservatrice al suo interno (sei giudici di nomina repubblicana contro tre di nomina democratica), che ha consegnato una vittoria dopo l’altra a evangelici, amanti delle armi, grandi aziende. Senza farsi scrupoli nel ribaltare un importante precedente qua o là. Questo ultimo particolare è ciò che ha destato più preoccupazione, come a dire: una Corte che non si preoccupa di invalidare Roe v. Wade per depennare il diritto federale all’aborto e non esita ad annullare la sentenza Chevron azzoppando le agenzie federali non si fermerà davanti a nulla. D’altra parte, l’ex vice procuratore generale Michael Dreeben ricorda come la violazione del precedente «non sia un’eccezione alla tendenza della Corte Suprema nell’annunciare la propria decisione in casi che ribaltavano altri», e lo stesso Congressional Research Service nel 2018 ha registrato più di 140 istanze simili. Ma – continua lo stesso rapporto – la tradizione vuole che per annullare un precedente si consideri una serie di fattori, primo fra tutti un cambiamento nella società nel suo complesso che ne giustifichi o addirittura suggerisca l’eliminazione. La società di oggi si sarebbe dunque rivoltata contro il diritto all’aborto a mezzo secolo dalla sua istituzione? Grazie a questo e altri esempi di sentenze a svantaggio di minoranze, studenti, donne, agenzie federali, a molti sembra che la Corte sia distaccata dalla realtà e stia facendo di tutto per promuovere un’agenda ultraconservatrice.
C’è un però. Se, per dirla con le parole del Chief Justice Earl Warren, è vero che il lavoro del sistema giudiziario è quello di «dire quale sia la legge» (una definizione essenziale di quel judicial review nato dalla sentenza Marbury v. Madison del 1803), è anche vero che questo lavoro si è sempre svolto in un contesto in cui le garanzie di imparzialità si affidano al senso di responsabilità del singolo più che a limiti formali. Il processo di selezione politica, infatti, di per sé non garantisce che sugli scranni siedano giudici super partes, tanto più che dal 2017 è necessaria solo la maggioranza semplice del Senato per approvare una nomina. E, d’altronde, sempre grazie al judicial review le corti hanno sempre fatto politica, con la (quasi) certezza che il principio dello stare decisis (il vincolo del precedente) garantisse stabilità alla sentenza.
Il risultato è che la Corte Suprema è contemporaneamente creatrice e risultato di “ere” politico-giudiziarie, all’inizio delle quali è normale che le sentenze che definivano l’essenza di quella precedente vengano ribaltate. Il politologo Keith Whittington, nel suo saggio Political Foundations of Judicial Supremacy, ricorda come la Corte, in una costante lotta per difendere e riaffermare il suo ruolo, giochi ruoli diversi in base agli incentivi derivanti dagli altri poteri dello Stato. Talvolta è stato comodo per i politici lasciare alla Corte la decisione finale su temi polarizzanti per liberarsi da difficili decisioni, stabilizzando allo stesso tempo il «regime costituzionale».
L’era liberal della Corte Suprema è durata un’ottantina d’anni, iniziando con l’ammorbidimento nei confronti del New Deal. Si affermò pienamente con Brown v. Board of Education nel 1954, che nello stabilire incostituzionale la segregazione delle scuole ribaltava Plessy v. Ferguson del 1896, che la permetteva dovunque secondo il principio separate but equal. È stata un’era di aperture verso i diritti civili, con Roe v. Wade a tutelare l’aborto neanche vent’anni dopo, Lawrence v. Texas a decriminalizzare una volta per tutte le relazioni omosessuali consensuali e Obergefell v. Hodges che nel 2015 aprì le porte al matrimonio tra persone dello stesso sesso. Allo stesso tempo, ci sono state aperture nei confronti delle agenzie federali cui fu garantito grande margine di interpretazione, entro un limite di ragionevolezza, delle leggi del Congresso grazie alla sentenza nel caso Chevron v. NRDC del 1984. È stata una fase lunga e caratterizzata da un notevole spirito creativo da parte della Corte.
Tale spirito ha però spinto la parte lesa, i conservatori, a sviluppare una strategia tutta loro per cambiare le carte in tavola. Calvin TerBeek, della University of Chicago, traccia molto bene le radici della nuova tattica, l’originalismo politico e costituzionale, nello shock della sentenza Brown. A un costituzionalismo “vivo”, modellabile secondo le esigenze della società nel suo momento presente, si contrappone una lettura letterale del testo costituzionale, che considera unica interpretazione legittima quella dei padri fondatori stessi. Loro lo volevano l’aborto? Loro intendevano che l’agenzia di protezione ambientale fissasse gli standard delle emissioni degli impianti industriali? L’escamotage per proteggersi dal progresso diventò questo: ciò che non è esplicitamente scritto nella Costituzione non può essere costituzionalmente garantito. Per dirla con le parole usate da Corrado Caruso, professore di diritto costituzionale all’università di Bologna, in un articolo uscito dopo l’annullamento di Roe v. Wade, «per l’originalismo, ciò che rileva è il significato primigenio, la “pre-comprensione”, socialmente e storicamente situata, della Costituzione da parte di una data comunità politico-culturale nel momento in cui ha scelto di dotarsi della higher law». La dominazione conservatrice della Corte Suprema, quindi, non è altro che un cambio di paradigma. Profondo, certo. Forse duraturo. Ma non anomalo. D’altronde, è dalla tentata nomina di Robert Bork negli anni Ottanta, che ha inaugurato l’era contemporanea di politicizzazione e partigianeria, dispetti tra i partiti ed erosione dello spirito bipartisan, che i repubblicani cercano di eseguire un takeover della Corte. Come negli anni Cinquanta si era occupata del tema razziale, troppo caldo per i politici, e negli anni Settanta dell’aborto, troppo difficile anche per gli stessi democratici, ora questa torna sugli stessi temi facendo il gioco dei repubblicani, che nonostante tante parole non potrebbero toccare questi temi senza conseguenze elettorali devastanti. Vedremo, in questi tempi frenetici, quanto durerà.