Nell’immaginario collettivo, le forze armate sono da sempre uno dei simboli degli Stati Uniti e del loro potere. Con un personale attivo che conta 1.328.000 uomini e donne e un budget di più di 800 miliardi di dollari (circa il 13 per cento dell’intero budget federale), le forze armate americane sono di gran lunga le più potenti al mondo. Gli statunitensi stessi ne riconoscono il ruolo fondamentale nel garantire la sicurezza del Paese e sostenere gli interessi nazionali. In un recente sondaggio del Pew Research Center, il 60 per cento dei cittadini a stelle e strisce ha affermato che le forze armate hanno effetti positivi per il Paese, mentre secondo un’altra ricerca più dell’86 per cento degli intervistati ha fiducia in loro. Non c’è da stupirsi, quindi, che con l’avvicinarsi delle elezioni anche i militari siano diventati parte del dibattito, sia come oggetto della discussione che, in certi casi, come interlocutori.
Come sanare un «esercito woke che non sa combattere o vincere», secondo Donald Trump
Fin dalla sua elezione nel 2016, Donald Trump ha avuto un rapporto complicato con le forze armate, dai veterani e le famiglie dei caduti ai maggiori vertici del Pentagono. In diverse occasioni, l’ex presidente si è lasciato andare a commenti denigratori verso i caduti, definendoli «perdenti» e «stupidi»; verso gli ex generali che hanno fatto parte del suo governo, chiamati «un mucchio di idioti e bambini»; e infine contro l’ex candidato presidenziale e senatore repubblicano John McCain, «un eroe di guerra solo perché venne catturato». Più recentemente, Trump ha anche fatto un confronto tra la medaglia presidenziale della libertà e la Medal of Honor, definendo la prima migliore perché la seconda viene data a soldati che «sono in pessime condizioni perché sono stati colpiti tante volte dai proiettili o sono morti».
D’altronde, pur studiando all’accademia militare di New York, in gioventù Trump riuscì in varie occasioni a eludere la leva militare, procurandosi dei certificati medici fasulli. Quel che lo affascina della guerra non è il servizio per la nazione, hanno detto in passato alcuni suoi conoscenti a Foreign Policy, ma la grandeur delle parate, delle armi e delle medaglie. Ciò nonostante, quando si è trattato di prendere delle decisioni durante la sua presidenza, Trump non sembra essersi tirato indietro dall’aumentare le spese militari: tra il 2017 e il 2020, il budget della difesa è aumentato del 9,3 per cento rispetto al 2013-2016. In realtà, però, quest’ultimo triennio era limitato anche dalle misure del Budget Control Act, e il budget di Trump fu comunque minore del 10,8 per cento rispetto a quello del 2009-2012 firmato da Bush.
Questi dettagli oggi non vengono ricordati dalla campagna di Trump, che invece insiste sul voler «ricostruire l’esercito» e riportarlo alla potenza che possedeva nel 2018. Come si legge nel quarto capitolo del Project 2025, questo non significa solo alzare il numero di soldati e di spese militari. Se oggi le forze armate non riescono a contrastare le provocazioni di Cina e Russia, è anche perché sarebbero diventate woke, soggette all’«indottrinamento marxista» e indebolite dall’arruolamento di persone transgender e dai programmi dedicati a diversità, equità e inclusione. Il piano di Trump e dei suoi collaboratori si concentra su un ritorno a una sorta di età dell’oro conservatrice, nella quale l’esercito era servito da veri uomini, pronti a combattere una guerra contro nemici come la Cina. La scelta di J.D. Vance (veterano dei Marines) come candidato vicepresidente servirebbe a ribadire questa linea e a mostrare il ticket trumpiano come quello che ha a cuore gli interessi delle forze armate e dei veterani. Dall’altro lato, però, questa età dell’oro trumpiana potrebbe essere ormai fuori tempo massimo di fronte a un esercito che, negli ultimi anni, è cambiato tanto quanto la società americana stessa.
«L’obbligo sacro di prenderci cura delle nostre truppe e delle loro famiglie» per Kamala Harris e i democratici
Nel pensiero comune, le forze armate sono spesso considerate una delle espressioni più pure delle forze conservatrici di un Paese. Dopotutto, ce lo conferma il loro ruolo storico nel determinare la nascita di dittature e autoritarismi intervenendo direttamente nella politica di molti Stati. Da alcuni anni, però, le forze armate americane stanno cambiando, diventando più rappresentative della diversità che caratterizza la società americana, più inclusive e, quindi, più efficienti, come dimostrato da molte ricerche. Questo non significa solo includere un maggior numero di donne, di persone non bianche o Lgbtqia+, ma anche di idee politiche diverse.
Nel 2020, per esempio, alcuni sondaggi mostrarono che la maggior parte delle truppe in servizio fosse più favorevole a Biden rispetto a Trump e che quest’ultimo fosse preferito dai veterani più anziani, mentre Biden dai più giovani. Le vicende di questi mesi, e in particolare la scelta del candidato vicepresidente di Kamala Harris, ci hanno mostrato questo cambiamento anche nella classe dirigente democratica. Nel bacino dei possibili candidati a vicepresidente, ben tre (Pete Buttigieg, Mark Kelly e Tim Walz) erano veterani con molti anni di servizio. Walz, poi selezionato, è stato perfino il soldato congedato di più alto rango che abbia mai prestato servizio al Congresso. Se si aggiunge poi il timore che un ritorno di Trump possa comportare l’utilizzo dell’esercito per mantenere il potere da presidente e un pericolo per le istituzioni democratiche, si capisce il motivo per cui anche figure in passato apicali della difesa americana si siano esposte a favore di Kamala Harris.
Al momento, le politiche che la candidata dem vuole perseguire in questi ambiti non sono ancora state chiarite. Ci si aspetta però un proseguimento del supporto dato ai veterani e ai soldati in servizio attivo durante l’amministrazione Biden e una forte collaborazione con gli alleati in politica estera.
Gli interrogativi per il futuro delle forze armate americane
Di fronte a un ticket democratico molto più attento alle esigenze e al ruolo delle forze armate e a un Partito repubblicano stretto tra la necessità del loro voto e il desiderio di riformarle, resta da chiedersi come si evolveranno queste tendenze in futuro. Siamo di fronte a un esercito che diventa più liberal o è solo una reazione all’estremismo trumpiano? Nel campo dem accetteranno tutti questo atteggiamento verso i militari o i gruppi più progressisti si opporranno? Per scoprirlo, non ci resta che attendere i prossimi mesi.