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Dall’intersezionalità alla cancellazione: come il femminismo digitale ha deviato la lotta

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Il termine «intersezionalità», coniato da Kimberlé Crenshaw, è oggi spesso usato in modo fuorviante. Cos’ha in comune con la giustizia trasformativa e gli insegnamenti di bell hooks?

Se dovessimo oggi individuare il principale problema dell’intersezionalità, sarebbe il suo essere diventata (purtroppo) virale. Coniata nel silenzio dei corridoi accademici e dei dipartimenti di legge, la lente attraverso cui la teorica Kimberlé Crenshaw ha proposto, a partire dal 1989, di iniziare a interpretare come interdipendenti le interazioni tra le dimensioni sociali della razza, del genere e della classe ha raccolto sempre più popolarità dagli anni Dieci del Ventunesimo secolo. 

Da quel momento, il prisma dell’intersezionalità ha lasciato la casa della legge e del diritto, diventando uno dei termini più utilizzati – il più delle volte volte in maniera fuorviante – nel mondo femminista. Oggi il dibattito sull’intersezionalità si articola in tre livelli differenti: si parte dall’esegesi continua di ciò che intendeva Crenshaw, passando per l’interpretazione del termine da parte delle diverse comunità impegnate a combattere ogni forma di disparità e discriminazione fino ad arrivare a come i più conservatori reagiscono all’utilizzo della lente. «Questo è ciò che accade», dice Crenshaw a Vox, «quando le idee viaggiano al di fuori del loro contesto superandone il contenuto». 

Secondo l’accademica, il vero punto di forza della teoria starebbe nella sua aspirazione a creare sempre più spazio per pratiche di advocacy oltre che riparative, al fine di aprire la strada a un sistema più egualitario. Un punto di arrivo, dunque, positivo, conciliante, molto vicino alle concezioni di giustizia trasformativa elaborate da attiviste nere come adrienne maree brown.

La giustizia trasformativa si oppone e resiste a ogni forma di sanzione gestita dallo Stato, in favore di percorsi di elaborazione della violenza radicati nel supporto di una comunità e nella riappacificazione. Ma che cos’ha in comune con l’intersezionalità di Crenshaw? La loro lontananza dalle dinamiche punitive. Proprio quelle che sembrano aver, al contrario, piegato l’attivismo femminista alla rapidità richiesta dai social. Attraverso questa dinamica che brown definisce «frenesia alimentare», si finisce per mascherare dietro l’intersezionalità la stessa giustizia punitiva agita dalle istituzioni, incapace di affrontare il danno alla radice, di distinguerlo dall’abuso e di insegnarci ad abitare, insieme, il conflitto, che è parte integrante e necessaria della nostra società. Quella cioè che abbandona la natura di lente facilitatrice dei meccanismi interpersonali di lotta per vestire i panni di un meccanismo aut aut che, se non rispettato, implica una sanzione.

Danno, abuso, conflitto: sono i tre concetti distinti a cui ricorre brown che, quando confusi, ci allontanano da quel «decostruire senza dividere» che auspicava bell hooks nei suoi scritti. «Abbiamo tutte lavorato la stessa terra che abbiamo sotto ai piedi», scrive l’attivista Malkia Devich-Cyril. È un principio di cui il femminismo digitale continua a dimenticarsi, ricorrendo a strumenti come gli indiscriminati call out (inevitabili, tuttavia, quando la struttura multilivello del potere inserisce troppi gradi di separazione tra l’abusante e la sopravvivente). Ma anche al meccanismo della cancellazione: in un processo, più che intersezionale, performativo. In questo caso.  i sopravviventi da danni e abusi finiscono addirittura per venire oscurati dal peso di un controllo molto simile a quella dello Stato, che si voleva in origine contrastare e contestare. 

«Come facciamo», chiede brown, «nei movimenti a renderci vicendevolmente responsabili, responsabili nei confronti di una concezione che superi il sistema [punitivo, ndr]»? È una domanda che non esclude la necessità di assumersi la responsabilità, in caso di danno, di rimediare a questo. Né esclude l’incontestabile presenza di figure “infiltrate” nei movimenti contemporanei al fine di depotenziarli. Oggi, però, queste domande sembrano inconcepibili

Quando Malkia Devich-Cyril dice che abbiamo tutti lavorato la stessa terra, intende che tutti e tutte abbiamo avuto modo di deluderci, ma non è con rigidità e punizioni che bloccheremo il ciclo della violenza: soprattutto, non torneremo a casa. Casa, come comunità dove ci sentiamo al sicuro, dove con estremo coraggio «riconosciamo i punti di rottura senza rinnegare i pezzi rotti» che abbiamo tra le mani; dove veniamo guidati dall’amore come forza politica trasformativa (come nel pensiero di bell hooks), che orienta le decisioni sempre secondo sentimenti di incontro e di costruzione, e mai di dissoluzione e distruzione.

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