Il sole è appena sorto, ma Arianna è già sveglia. Non per scelta: il dolore l’ha tirata giù dal letto prima ancora che la sveglia potesse suonare. Sa già che anche oggi dovrà vestirsi, prepararsi, affrontare il lavoro con un dolore costante che la segue ovunque. Ogni mattina è una battaglia silenziosa, una lotta contro un corpo che non smette di farle male. Anche se, in molti casi, fuori nessuno lo vede.
L’endometriosi è una patologia cronica che in Italia colpisce circa tra il 10 e il 15 per cento delle donne in età riproduttiva, con sintomi che vanno dai forti dolori mestruali a problemi digestivi, infertilità o affaticamento cronico. Nonostante sia così diffusa, la sua diagnosi arriva con un ritardo medio di circa sette anni. Nel caso di Arianna, ce ne sono voluti quasi dieci prima che qualcuno prendesse sul serio il suo dolore. «Dai tredici anni ho sempre avuto dolori fortissimi, ma mi dicevano che era normale. Vedevo anche mia madre stare sempre male e mi sono convinta che fosse giusto così», racconta. «Alla fine, a diciotto anni ho deciso da sola di andare in consultorio. Mi hanno prescritto la pillola, ma i sintomi non sono mai scomparsi».
Nel 2021 Arianna si è rivolta a un ginecologo specializzato in endometriosi. Ma il dolore insopportabile che le impediva persino di sedersi sul lettino è stato trascurato e la risposta che ne è seguita è risuonata come uno slogan: «Non hai nulla, cambiamo pillola». Nel frattempo, il dolore continuava a peggiorare. «Con il Covid-19 trovare un medico disponibile è stato impossibile. Nessuno mi prendeva sul serio». Solo alla fine del 2022, grazie a una risonanza magnetica effettuata in un centro specializzato, ha avuto la conferma definitiva della diagnosi. Nel frattempo, per cercare di gestire il dolore quotidiano, le era stata prescritta una terapia che le ha permesso di migliorare almeno un po’ la qualità della vita mentre attendeva risposte definitive.
Il caso di Arianna non è isolato. Secondo una ricerca della Fondazione Alessandra Graziottin, il 75 per cento delle donne con endometriosi ha sperimentato una tendenza da parte dei medici a minimizzare la veridicità delle loro parole. Questa svalutazione porta spesso a ritardi diagnostici, con pesanti effetti psicologici. «L’endometriosi non è una malattia ginecologica, ma una patologia sistemica che può colpire diversi organi», spiega Arianna. Eppure, ancora oggi viene trattata solo come un problema mestruale: questo ritardo nella comprensione medica e sociale ha un impatto devastante sulla vita delle pazienti.
Conviverci significa ridefinire ogni aspetto della propria esistenza, dal lavoro alla vita sociale. «Ora valuto attentamente ogni offerta di lavoro, perché anche mezz’ora di auto può peggiorare i sintomi. Inoltre, cerco ambienti che mi permettano di alzarmi e muovermi quando ne ho bisogno». Anche la sfera personale ne risente. «La cosa più difficile è far capire agli altri che questa è una malattia cronica. Non passa tra dieci giorni o sei mesi. I trattamenti servono solo a contenere i sintomi, ma non a guarirmi».
Trovare un gruppo di supporto è stato fondamentale per Arianna: «Tramite Facebook ho conosciuto altre ragazze con malattie croniche e abbiamo creato una chat su Telegram. Ci confrontiamo su farmaci, medici e terapie, ma è anche un posto dove possiamo sfogarci e sostenerci». Il supporto emotivo è cruciale, perché non tutte hanno una rete familiare comprensiva e solo chi vive questa realtà può capirla davvero.
Oltre al sostegno psicologico, è urgente una riforma della gestione sanitaria dell’endometriosi. La patologia richiede un approccio multidisciplinare, che coinvolga ginecologi, fisioterapisti, nutrizionisti e psicologi, ma spesso manca un coordinamento tra specialisti. «Una delle difficoltà maggiori è trovare medici che si parlino tra loro», sottolinea Arianna. «Per fortuna sto iniziando a incontrare professionisti, soprattutto giovani, che vogliono davvero capire e approfondire». L’endometriosi resta una malattia poco conosciuta e sottovalutata. Una ricerca di SWG riporta che meno del 4 per cento delle donne conosce tutti gli aspetti dell’endometriosi, mentre quasi la metà crede che bastino antidolorifici per affrontarla e il 35 per cento pensa che la diagnosi sia immediata ai primi sintomi. Saper ascoltare il proprio corpo è il primo passo per farsi ascoltare. Dopo anni di minimizzazione, molte donne finiscono per dubitare dei propri sintomi. Secondo Arianna, «se c’è dolore, disagio o qualsiasi sintomo che limita la qualità della vita, allora è qualcosa di reale e merita attenzione». Il ritardo diagnostico, la mancanza di ricerca e il peso del pregiudizio di genere rendono il percorso di chi ne soffre ancora più complesso. «Non dovrebbe essere compito nostro convincere i medici che il nostro dolore esiste», afferma. «Ma per ora, purtroppo, lo è. E finché le cose non cambieranno, dobbiamo continuare a far sentire la nostra voce».