Ha scelto di farsi chiamare Flaminia. Come avrebbe chiamato una bambina, se ne avesse avuta una. Invece ha avuto due maschi da un uomo che l’avrebbe potuta ammazzare. «Se fossi stata mansueta, avrei sofferto di più. È grazie alla rabbia che sono viva», racconta. La rabbia, dice, «non è romantica e non è femminile», e però le è affezionata, le mostra gratitudine, la espone e la tiene sul cuore come un ciondolo appeso a una catenina. «Non la nascondo più. A una certa età ti puoi permettere di essere così come sei».
Ce l’ha avuta dentro da sempre, da quando era bambina. Una rabbia positiva, rivoluzionaria, mossa da un innato senso di giustizia. Faceva a botte con i compagni di scuola maschi per difendere i più deboli. Poiché si ribellava, suo padre la picchiava più di quanto non facesse con i suoi fratelli. Forse proprio per questo, crescendo, è andata in cerca di altrettanta violenza.
«È una specie di perversione», ammette. «Ho cercato inconsciamente una persona che avesse le stesse caratteristiche di mio padre. Ero ancora succube di una sorte che mi era stata imposta. Realizzare questo, e capirlo così tardi, mi ha fatta precipitare in una condizione fisica e mentale di incredibile debolezza. Per la prima volta in vita mia, avevo perso la rabbia. Una mattina non sono più riuscita ad alzarmi dal letto».
Flaminia è stata con il suo ex compagno per trent’anni. I primi dieci passati come ragazzini a viaggiare spensierati. Poi lui ha voluto un figlio, e lei ancora non se la sentiva. «In una famiglia la prima rinuncia la fa la donna», commenta. Nel suo torpore, Flaminia non capiva. Dov’era finita l’energia per fare tutto? La sua vulnerabilità è stata un magnete. Ha attirato gli insulti e la violenza del suo compagno. Da «smetti di andare al lavoro, ci penso io» a «non vali niente perché pago tutto io». Da «voglio un figlio con te» a «figli miei, vostra madre è una mignotta». «Quando mi sono accorta di come mi trattava, ho raccontato quello che succedeva in casa a mia madre e lei mi diceva: “Tu non gli rispondere”. Come non dovevo rispondere a mio padre».
Uno studio condotto dalle psicologhe americane Will, Self e Data ha messo in evidenza come la rabbia viene spesso esclusa dall’educazione emotiva nella crescita delle bambine. Un potenziale discriminatorio che porta le donne a reprimerla, a sostituirla con qualcosa di vulnerabile e grazioso; con emozioni più accoglienti, verso cui tendere, come la tristezza. Anche a Flaminia è stato insegnato a fare così. A non contraddire gli uomini, a partire dal padre. Perché «contrastare non è femminile».
Invece, gli esperimenti degli psichiatri Kopper e Epperson hanno dimostrato che le donne provano rabbia più spesso e più intensamente degli uomini. E così, esse «sperimentano il conflitto quotidiano tra la rabbia che provano e la consapevolezza che essa non è in linea con la femminilità», commenta la scrittrice Soraya Chemaly nel libro La rabbia ti fa bella (HarperCollins, 2019). «Siamo così impegnati a insegnare alle femmine a piacere», aggiunge, «che spesso dimentichiamo di insegnare anche a loro, come facciamo con i maschi, che dovrebbero essere rispettate».
Secondo Flaminia, dobbiamo completare le rivoluzioni iniziate dalle femministe degli anni Sessanta nelle case delle donne. «Abbiamo ancora una cultura della violenza radicata. Serve un altro secolo affinché questa mentalità patriarcale vada scemando. In casa e sul lavoro».
Per quanto il discorso attorno alla violenza sulle donne sia ampio, le forme di tutela e prevenzione continuano a esistere solo in senso empirico. In un’analisi del 2023 presentata dall’organizzazione ActionAid emerge che in dieci anni le risorse complessive dei governi italiani dedicate alla lotta contro la violenza di genere sono, sì, aumentate del 156 per cento, ma parallelamente a una drastica diminuzione delle risorse destinate alla prevenzione, fondamentale per incidere sulla cultura di prevaricazione e di disparità che è alla base della nascita delle dinamiche di violenza di genere. Con le misure finanziate dal governo che si concentrano solo sull’intervento al momento in cui la violenza è già avvenuta, tralasciando tutto ciò che può essere fatto prima, non cala infatti il numero dei femminicidi.
E dunque Flaminia dice: «Io mi sono salvata da sola. Mi ha salvato il mio nuovo compagno. Quando ero con il mio ex, veniva sotto casa a controllare che non mi avesse ammazzata. Ho iniziato a combatterlo perché, quando tocchi il fondo, quella rabbia torna. Se avessi avuto un’indipendenza economica me ne sarei andata molto prima. Quando i miei figli sono cresciuti ho detto: vada come vada, io qua faccio un casino».
Ora il suo ex compagno lo incontra solo in tribunale. Flaminia ha in progetto di riprendere con sé i suoi figli, che vivono con il padre nell’appartamento dove sono cresciuti. Lei è dovuta scappare in una vecchia casa di proprietà della sua famiglia, ma ogni centesimo del suo nuovo lavoro servirà a comprarne una finalmente sua, «il posto in cui i miei figli vivranno con l’idea che la donna è uguale all’uomo».
È tutto da rifare, da riscrivere da capo, a partire dall’educazione. Ora che i suoi genitori non ci sono più, Flaminia vuole ripensare un’educazione a base di rispetto e amore. L’amore. Una forma di debolezza, secondo sua madre. «Quando baciavo i miei figli piccoli», racconta, «mamma si arrabbiava. Diceva che i bambini si baciano solo quando dormono».
C’è invece l’amore all’origine di tutto, anche della rabbia. «Una volta», racconta Flaminia, «ho assistito a un episodio di violenza da parte di un gruppo di ragazzi su una donna, vicino casa mia. Lì ho sentito una rabbia quasi maschile. Ho chiamato i carabinieri e poi ho preso un bastone e mi sono fiondata sui ragazzi. Li avrei uccisi. Dovevo aiutare quella ragazza. La mia rabbia è sempre stata un istinto di tutela e di giustizia. Per me e per gli altri».
Ma perché l’ha chiamata una rabbia quasi maschile? «Perché non avevo paura di nessuno. Non mi sarei fermata. Come un maschio. La rabbia dell’uomo secondo me è così. Distrugge».