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Oltre le buone intenzioni: perché la DEI non ha cambiato la percezione collettiva

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Il fallimento delle politiche di diversità, equità e inclusione non è legato alla sfera etica o a quella morale, ma all’incapacità di superare la soglia critica della percezione collettiva

Negli ultimi decenni, la diversità, l’equità e l’inclusione (DEI) sono stati celebrati come valori imprescindibili nelle istituzioni moderne. Aziende, governi e organizzazioni internazionali hanno investito risorse e costruito politiche con l’obiettivo di rendere questi ideali tangibili. Tuttavia, oggi ci troviamo di fronte a un paradosso: nonostante l’importanza universalmente riconosciutale, la DEI non è riuscita a radicarsi come una realtà socialmente negoziata.

Il suo fallimento non è legato alla sua validità etica o morale, ma all’incapacità di superare la soglia critica della percezione collettiva. Non è mai diventata la scelta a minor sforzo cognitivo, quella verità intuitiva che guida le azioni quotidiane senza bisogno di spiegazioni. La DEI è rimasta un ideale nobile, ma astratto: un concetto giusto in teoria, che non ha saputo vincere la negoziazione con la realtà.

Un’illusione necessaria, ma incompiuta

Il sociologo Erving Goffman ci insegna che ogni realtà sociale è costruita da frame cognitivi che definiscono ciò che è rilevante e come dovrebbe essere interpretato. La DEI ha cercato di costruire un nuovo frame universale, ma non è riuscita a diventare quella lente attraverso cui la maggioranza interpreta il mondo. La sua adozione è rimasta confinata a contesti istituzionali, priva della forza emotiva e cognitiva per entrare nel tessuto quotidiano delle relazioni sociali.

Nonostante le buone intenzioni e gli sforzi significativi, la DEI non ha raggiunto la massa critica necessaria per diventare una realtà negoziata collettivamente. La sua debolezza principale è stata l’incapacità di trasformarsi in una scelta a basso costo cognitivo: seguire i suoi principi ha spesso richiesto uno sforzo consapevole, andando contro le scorciatoie cognitive che normalmente guidano le nostre decisioni, come dimostrato da Daniel Kahneman nella sua teoria dei due sistemi di pensiero.

Il ritorno della real reality

La fine della DEI non è un ritorno al passato, ma un segnale di cambiamento: il riaffermarsi di una realtà che non si lascia guidare dagli ideali, ma dalle dinamiche di negoziazione sociale. Questa real reality rappresenta il riconoscimento che ogni costruzione sociale deve guadagnarsi il diritto di esistere attraverso un processo di legittimazione collettiva, non semplicemente attraverso la sua presunta giustezza morale.

Il concetto di real reality, ispirato alla realpolitik, ci ricorda che la società non si muove in base a ciò che è giusto, ma in base a ciò che riesce a consolidarsi attraverso l’interazione tra potere, percezione e interesse collettivo. La DEI, nonostante il suo potenziale rivoluzionario, non ha saputo vincere questa sfida.

Una lezione da apprendere

L’apparente fallimento della DEI non rappresenta la fine dei suoi valori fondamentali. Al contrario, è un monito potente: le idee, anche le più giuste, devono diventare realtà negoziate per avere un impatto duraturo. L’opportunità, ora, non è abbandonare i principi della DEI, ma comprendere come trasformarli in realtà effettiva. Serve una strategia più sottile, che sappia negoziare con il reale, superando le barriere cognitive e costruendo nuovi frame che possano radicarsi nella percezione comune.

La caduta della DEI non è colpa di Trump, non è colpa della destra, non è la fine di un ideale: è l’inizio di una riflessione più profonda su come costruire realtà condivise non sia uno sforzo di perbenismo culturale da una torre d’avorio del politically correct. È un invito a riscrivere le regole della negoziazione sociale, accettando che il potere di trasformare il mondo appartiene a chi sa interpretare e guidare le percezioni collettive. Agli architetti della realtà.

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