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La Mappa dell’intolleranza 2025 e una nuova consapevolezza

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L’indagine sulla natura dell’odio online è lo specchio di un fenomeno più vasto: la nostra percezione distorta della realtà digitale

In un paesaggio di discriminazioni radicate, gli algoritmi hanno avuto il delicato ruolo di spingere o penalizzare alcune voci, disegnando un contesto ben diverso da quello che molti immaginano. Lo dimostra la Mappa dell’intolleranza, che nel 2025 è giunta alla sua ottava edizione. Lo strumento, voluto da Vox – Osservatorio Italiano sui Diritti e realizzato in collaborazione con alcune prestigiose università e il supporto operativo di The Fool, ricerca e geolocalizza i tweet che contengono parole sensibili e identifica le zone dove l’intolleranza è maggiormente diffusa seguendo sei categorie: misoginia, antisemitismo, islamofobia, xenofobia, abilismo, omotransfobia. 

Il prisma distorto dell’algoritmo

L’odio non è un’emanazione improvvisa: è lì, silenzioso, in attesa che l’architettura digitale lo riporti alla luce con meccanismi complessi. Dalla diminuzione della moderazione alla rimozione delle barriere che limitavano certi contenuti, la realtà si è mostrata in tutta la sua durezza. E ciò che un tempo sembrava un ampio consenso verso voci “virtuose” oggi si ridimensiona, rivelando un numero di “cuori” ben inferiore alle attese. La Mappa dell’intolleranza offre nuove coordinate per orientarci, ma invita anche a una riflessione più profonda sulle conseguenze di anni di spinte infrastrutturali. Siamo di fronte a un momento in cui la open society teorizzata dal sociologo Karl Popper e la bolla dell’attivista Eli Pariser coesistono, svelando inaspettate convergenze di interessi, manipolazioni e spin algoritmici. Ricostruire una percezione autentica è ora un passaggio vitale.

Teorie dell’odio e cornici di riferimento

L’analisi dell’odio sistemico affonda le proprie radici nelle ricerche sulla propaganda e sulla comunicazione strategica. Già a metà del secolo scorso diversi studiosi avevano evidenziato come la costruzione di stereotipi sia uno dei metodi più efficaci per mantenere e rafforzare dinamiche discriminanti. Questa prospettiva è fondamentale per collocare le diverse forme di odio entro un quadro teorico che ci ricorda quanto i pregiudizi strutturati siano espressione di assetti culturali duraturi. 

Gli autori che hanno studiato le filter bubble hanno contribuito a mostrare come la tecnologia possa trasformarsi in un elemento di accelerazione per i discorsi d’odio, favorendo l’autopolarizzazione e la radicalizzazione interna alle comunità digitali. In modo analogo, le riflessioni di Popper sull’apertura della società rimangono attuali, evidenziando quanto il paradigma del dibattito “aperto” possa degenerare se non regolamentato da adeguate politiche e da un’alfabetizzazione digitale capillare.

Una realtà digitale senza filtri

Secondo la nuova narrativa, la revisione delle politiche di moderazione ha abbassato drasticamente le soglie di controllo, liberando contenuti che in precedenza venivano censurati o arginati. Con la ridotta spinta algoritmica a favore di narrazioni inclusive, molte comunità hanno sperimentato una visibilità inferiore, cogliendo con sorpresa quanto l’ampio consenso mostrato negli anni passati fosse in parte gonfiato da automatismi tecnologici. Questa riconfigurazione ha consentito a gruppi e movimenti che si alimentano di retoriche odiose di crescere. Il loro radicamento si è rafforzato nelle cosiddette echo chamber, ambienti dove il dissenso è punito e le convinzioni si estremizzano. Qui, manipolazioni volutamente progettate – come spin algoritmici o la diffusione di false narrative – possono generare sentimenti di indignazione più forti di quanto mai mostrato in precedenza.

Il progressivo venir meno del filtro esacerba l’emersione di un disagio diffuso, più profondo di ciò che i numeri di facciata avevano sinora mascherato. Allo stesso tempo, la censura selettiva praticata in passato, seppur con finalità “protettive”, rischia di aver consolidato forme di complottismo, autorizzando la crescita di gruppi “carbonari” attivi in modalità sotterranee.

Mappare il fenomeno, come fa la Mappa dell’intolleranza, assume così un valore strategico: sapere dove si annidano le concentrazioni di odio digitale, chi ne è il bersaglio privilegiato e quali narrazioni lo legittimano diviene indispensabile per orientarsi consapevolmente in un ambiente sempre più esposto, in cui il confronto tra realtà percepita e realtà effettiva non può più essere ignorato.

Ripensare le strategie

Nel medio periodo, l’emergere di un quadro più oggettivo rende ancora più stringente la necessità di rafforzare l’alfabetizzazione media, così che utenti e aziende riconoscano le logiche di spinta o censura sottese ai vari sistemi di ranking online.

Da questa crisi può emergere l’opportunità di recuperare l’idea popperiana di una società aperta, integrandola con le nuove sfide della tecnologia e della manipolazione del consenso. Solo con un approccio lungimirante si potrà evitare che la pressione algoritmica continui a ricalibrare i fenomeni sociali, offrendoci l’illusione di un futuro senza conflitti o, all’estremo opposto, mostrandoci una realtà in cui dominano esclusivamente gli attacchi e la retorica tossica. Alle aziende e agli esperti di reputazione spetta oggi la sfida di costruire narrazioni autentiche, basate su dati reali, per sostenere con serietà chi subisce l’odio, contrapponendo un impegno concreto alla mera apparenza di quei “numerini online” che troppo spesso hanno narcotizzato la nostra percezione del mondo.

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