È più discriminato un ragazzo gay o uno nero? Una donna disabile o una anziana? Un uomo trans musulmano o una donna cis povera vittima di violenza di genere? Le risposte non possono che essere sbagliate a prescindere, perché le domande stesse lo sono. Un limite sia della ricerca sia dell’attivismo, infatti, è stato considerare per molto tempo ogni tipo di discriminazione separato dall’altro. Bisogna parlare, piuttosto, di discriminazioni intersezionali multiple, per usare la classificazione di Timo Makkonen, esperto in leggi antidiscriminatorie. Soprattutto si dovrebbe evitare, all’interno di una comunità di persone marginalizzate, di escludere qualcuno con caratteristiche ancora più marginalizzate.
Nel 2020 la Fish (Federazione italiana per il superamento dell’handicap) ha condotto un’indagine sulla discriminazione multipla e intersezionale nelle persone Lgbtqia+ disabili, dopo tredici anni dalla prima e unica ricerca italiana sull’argomento promossa da Arcigay nel 2007 chiamata Abili di cuore. Nell’indagine della Fish si legge un dato che conferma quanto ancora sia necessario lavorare sull’intersezionalità: il 69 per cento delle persone disabili (Lgbtqia+) intervistate afferma di aver subìto manifestazioni di immotivata ostilità da parte di persone Lgbtqia+ (non disabili).
Simone Giangiacomi è un attivista omosessuale con la distrofia di Duchenne e ha condiviso con noi la sua esperienza. «Mi è capitato che alcuni uomini nelle chat di incontri mi chiedessero perché fossi lì, che era pericoloso o che comunque non era un posto per me», ci dice. Emanuele Pulzella, attivista gay con ADHD e dolori cronici reumatici ed emicranie, ci racconta che anche a lui è capitato di ricevere commenti simili. «Secondo me c’è la concezione sbagliata nelle persone che, se si è queer, allora si è al massimo della decostruzione: in realtà, però, la comunità Lgbtqia+ risulta parecchio discriminatoria sotto molti punti di vista», racconta. «Le discriminazioni delle persone disabili sono frequenti. Spesso l’ideale della comunità è dover dare l’immagine migliore di sé, in quell’immagine non rientrano le persone disabili».
Idealizzazione corporea
Si accenna a questo aspetto anche nell’indagine della Fish, secondo cui «sarebbe interessante poter verificare se la maggiore ostilità espressa dalle persone Lgbtqia+ possa essere fatta risalire a una mancata corrispondenza tra una persona con limitazioni e un’ideale di corporeità prestazionale, un elemento che non di rado condiziona la socialità all’interno della comunità Lgbtqia+». Chiara Ghirardi, femminista bisessuale affetta da endometriosi, sottolinea, come Emanuele, che «è sbagliato presupporre che una persona queer non possa essere abilista o cadere nella discriminazione. Far parte di una categoria marginalizzata non significa che il singolo provi empatia e comprensione per chi ha difficoltà diverse da quelle che sta affrontando».

Per quanto riguarda l’ostilità all’interno della comunità disabile riguardo all’omosessualità, l’indagine della Fish rileva che “solo” il 40,5 per cento delle persone intervistate l’abbia subìta: significa che quasi una persona su due ha subito discriminazione. Carlo, un ragazzo gay sordo, ci racconta di essersi sempre «sentito come un alieno, di non poter parlare della sua omosessualità». E ancora, Simone ci dice di aver fatto coming out tardi perché «in adolescenza pensavo che fosse peccato, che potevo essere preso in giro. Nell’ambiente scolastico, familiare, sportivo, in qualsiasi contesto in cui partecipavo. Sentivo di genitori che sbattevano fuori di casa i propri figli, temevo anche che la mia famiglia non mi accettasse o, addirittura, che non venissi più assistito da nessuno».
Chiara ci dice che parla poco del suo orientamento sessuale «nell’ambiente dell’attivismo per l’endometriosi e che non è mai stato motivo di discussione». Emanuele dice di non aver subito alcuna discriminazione. Jay, persona non binaria lesbica e ipovedente, non ha riscontrato ostilità nella comunità Lgbtqia+ ma non ha mai parlato della sua sessualità perché «inserire il discorso dell’omosessualità potrebbe portare a una “chiusura” da parte di chi ascolta. Le persone non concepiscono che una persona con disabilità possa avere una relazione o una vita sessuale attiva».
Dentro o fuori
Seppure le persone intervistate abbiano in comune due tratti fondamentali (la disabilità e l’orientamento sessuale) ci sono alcune differenze nelle loro specificità che, a seconda di come le raggruppiamo, mettono in luce altri tipi di intersezionalità. Per prima cosa, la differenza tra disabilità visibile e nascosta, come appare evidente nelle risposte molto forti di Simone e Carlo. In secondo luogo, l’identità di genere: i tre uomini hanno riportato esperienze negative, mentre le due persone socializzate come donne, Chiara e Jay, no. Anche nella ricerca Abili di cuore, le tre donne intervistate hanno dichiarato «un maggior grado di accoglienza della propria disabilità da parte del mondo femminile». È un campione talmente esiguo da non poter essere usato per ricavare una generalizzazione, però porta ad altre riflessioni. In un’intervista, la dottoressa Priscilla Berardi, psicoterapeuta e sessuologa, provando a spiegare il significato di quel dato, ha proposto l’ipotesi che «la maggiore disponibilità all’accettazione può derivare dal fatto che le donne sono educate all’accudimento e quindi all’accoglimento delle differenze».
Inoltre, nella comunità saffica l’attenzione all’estetica incide in maniera molto minore e si può ipotizzare che sia più facile accettare corpi non conformi. E, come ultima riflessione, le persone saffiche potrebbero riuscire a identificarsi e a empatizzare con più facilità, perché comprendono la doppia invisibilità che le accomuna alle persone disabili. In altri termini, sia la sessualità delle persone disabili che l’omosessualità femminile sono spesso cancellate dal discorso pubblico: questo potrebbe risultare in una maggiore accettazione.
Insomma, come dice la comica (e lesbica) Jessica Kirson, in un’interazione con il pubblico: «Lesbians don’t care if she has feet or not, lesbians will take care of you. That’s a real lesbian». In questo senso, dovremmo essere tutte e tutti un po’ più lesbiche.