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Natalità e welfare in un’Italia che invecchia

Nel pieno di una crisi demografica ormai decennale, l'Italia è ora più che mai chiamata a ripensare le proprie politiche di welfare familiare. Annamaria Parente (Magna Carta): «Non è solo questione di soldi, ma anche di equilibrio vita-lavoro»

Dai congedi parentali al bonus pannolini, dai contributi per le babysitter al taglio dell’Iva sui prodotti per l’infanzia, sono moltissime le iniziative adottate dai governi italiani a favore di genitori, coppie in dolce attesa o assillate da dubbi e timori sul metter su famiglia. È sufficiente scandagliare i siti web di ministeri e dipartimenti governativi di riferimento – Famiglia e Salute soprattutto – per scoprire un florilegio di sussidi, allocazioni, bonus non certo assimilabili, ma riconducibili a una comune, disperata finalità: trovare una via d’uscita da una crisi demografica di portata storica, stante il nesso indissolubile fra natalità e welfare.

Non c’è natalità senza maternità

L’invecchiamento strutturale della società italiana è motivo di allerta da tempo: il tema riaffiora quotidianamente in centinaia di pubblicazioni. Sfogliando le tante misure, senza addentrarsi tra le proposte più o meno concrete emerse in questi ultimi anni, si nota come queste siano accomunate dall’assenza di una visione di lungo termine. 

Il fiato corto del welfare familiare italiano

Un orizzonte ancorato all’immediatezza o, in altri termini, ai primi tre-quattro anni di vita del bambino contraddistingue gran parte delle misure di sostegno alla natalità promosse e concepite dagli esecutivi italiani nell’ultimo decennio. Una fattispecie consolidata e non troppo sorprendente, che collide tuttavia per definizione con quel «patto generazionale circolare» alla base di tutti i moderni sistemi di solidarietà sociale a capitale pubblico.

In una Babele di sconti e assegni estremamente onerosi per la finanza pubblica, per quanto riservati a platee ristrette, i decision maker, in particolare quelli che si occupano di politiche familiari, dovrebbero chiedersi se, al di là dell’indubbia convenienza elettorale, le norme di corto respiro e l’helicopter money non rischino di drenare risorse senza restituire sufficienti garanzie di risultato. Il riscontro dei dati conferma questa ipotesi: in materia di natalità, con 1,24 figli per donna in media, la sempre più frequente posticipazione della genitorialità porta l’Italia a un decremento del tasso di fertilità.

Con meno di 400mila nati nel 2022 e un trend negativo per il primo semestre del 2023, l’inverno demografico italiano ha messo a segno l’ennesimo colpo. Con tutte le precauzioni socio-culturali del caso, davvero l’allarmante dato dei soli 91mila bambini nati nel primo trimestre del 2023 non merita una riflessione, se confrontato con i 241mila concepiti nello stesso spettro temporale del 1943, quando la maggior parte della popolazione maschile era al fronte?

Un fattore non solo economico, secondo Magna Carta

A fronte di un tasso di ricambio generazionale ideale stimato intorno ai 2,2 figli per donna, il risultato italiano si attesta su un 1,2. Questa soglia appare difficilmente raggiungibile anche per Paesi in condizioni migliori, come Francia (1,83) e Germania (1,53).

Proprio sulle ragioni di questo quadro di crisi prova a fare chiarezza una campagna di ricerca curata dalla Fondazione Magna Carta e intitolata “Per una primavera demografica”. Lo studio ambisce a esaminare le ragioni profonde del calo demografico nel nostro Paese attraverso focus group tematici, un’analisi del welfare aziendale e territoriale e la realizzazione di una mappa aggiornata della natalità. «Dai primi dati raccolti tramite focus group e ancora in fase di elaborazione», spiega Annamaria Parente, già senatrice e Coordinatrice Sanità e Welfare, Scienza e Persona del Comitato Scientifico di Magna Carta, «sembra emergere che tra le ragioni per cui i giovani italiani tendono a rimandare la scelta di fare un figlio non c’è solo l’incertezza economica e occupazionale, ma anche il diffuso timore di non riuscire a conciliare in modo equilibrato il tempo di vita e quello di lavoro».

Nei sondaggi, inoltre, gli aspiranti genitori rivelano l’insuccesso delle politiche finora messe in campo: secondo quello commissionato da Plasmon e ripreso dal Sole 24 Ore, le motivazioni addotte dal 53,5 per cento dalle coppie che scelgono di non fare figli pur desiderandoli sono di carattere non solo economico e lavorativo, ma anche organizzativo. Emergono, tra le ragioni analizzate, le spese di mantenimento dei bambini e le preoccupazioni dovute alla carenza di servizi alla persona.

L’onda lunga dell’inflazione

I costi di mantenimento che le famiglie affrontano per i figli non si limitano alla fase infantile e neonatale (a esclusiva destinazione della quale interviene la classe politica), ma incrementano dall’età scolare al termine dell’istruzione obbligatoria. Libri, sport, trasporti, corsi di musica, attività extracurricolari: è difficile trovare beni e servizi insensibili ai rincari. «L’inflazione ha un impatto non solo sulla natalità, ma anche sul diritto allo studio. Esiste una correlazione fra la capacità economica delle famiglie e le possibilità di accesso allo studio, alla cultura, allo sport. I costi per l’acquisto dei libri scolastici sono un esempio. Mettere al mondo figli è anche e soprattutto una scommessa sul futuro: se venissero meno determinate garanzie di sostenibilità del diritto allo studio, anche le nascite non potrebbero che risentirne» spiega a Prismag Adriano Bordignon, presidente del Forum delle Associazioni Familiari.

Per i bambini in età scolastica, tuttavia, i problemi non si esauriscono al suono della campanella di mezzogiorno. A meno di non avere un contratto part time, controbilanciato però dalla rinuncia a uno stipendio decoroso, resta oggetto di preoccupazione l’accudimento pomeridiano dei figli. Babysitter e doposcuola restano valide alternative, per quanto minate nel primo caso da un criterio di accessibilità economica e, nel secondo, dalla sporadica diffusione di iniziative affini, specie nelle aree interne o meno urbanizzate del Paese. 

Fra pubblico e privato

La mancanza di strumenti di conciliazione vita-lavoro induce a riflettere sulle modalità del lavoro che cambiano, con lo smart working al primo posto, sulla flessibilità degli orari nei luoghi di lavoro e, più in generale, sui programmi di welfare adottati dalle aziende italiane in tema di natalità. «Da questo punto di vista, l’analisi che stiamo svolgendo sul welfare aziendale riguarda sia le buone pratiche realizzate da alcune imprese italiane, sia la comparazione delle esperienze messe in atto da grandi aziende in altri Paesi europei , oltre a una panoramica aggiornata delle normative italiane a livello nazionale e territoriale», sottolinea ancora Parente. La ricerca nata da “Per una primavera demografica” verrà presentata alla fine del 2023. L’eventuale evoluzione legislativa in materia dipenderà dalla capacità di ricezione e ascolto dei policy maker

I nonni in pensione? La risorsa preziosa del welfare familiare. Una presenza che ha ancora un grande impatto sulla natalità.

Nel frattempo, per tante coppie sono ancora i nonni a rappresentare un appoggio sicuro: a metterlo nero su bianco è una ricerca di Bankitalia, che evidenzia come i genitori di mamma e papà sopperiscano in modo ancora determinante alle lacune del welfare italiano. In tal senso, al graduale rialzo dell’età pensionabile – promosso per ovvie ragioni di sostenibilità finanziaria – fa da contraltare un decremento del tasso di fertilità. Tutt’altro che un dettaglio, in un’Italia in cui anche il grado di copertura offerto dalle scuole è un problema: se il tempo pieno elementare arriva a intercettare il 42 per cento degli alunni, la percentuale scende al 13 per la scuola media. 

L’assegno unico universale, spunto virtuoso da perfezionare

Un provvedimento, però, potrebbe migliorare la situazione: l’assegno unico universale. Erogato per ogni figlio a carico fino ai ventuno anni di età, senza limiti per i figli disabili e in una proporzione commisurata all’Isee, il contributo è perfettibile ma convince.

«L’estensione ai figli dei lavoratori autonomi, dei disoccupati e dei liberi professionisti ha reso strutturale una misura che ci avvicina ai modelli francese e tedesco» constata Bordignon. Che non si sottrae a proposte di miglioramento: «Occorre rompere con il modello di calcolo su base Isee. Non essendo l’assegno unico universale una misura di lotta alla povertà, ma di sostegno alla natalità, il differenziale nella cifra ricevuta tra chi guadagna di più e chi di meno necessita di correttivi. Come già suggeriscono molti economisti e demografi, poi, sarebbe opportuno lavorare a una premialità ulteriore per il secondo figlio, che per tanti genitori rappresenta uno scoglio inarrivabile». Un primo passo per la New Frontier demografica che occorre all’Italia.

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