La Cina della seconda metà del Novecento ha realizzato un miracolo: da Paese in via di sviluppo è diventata un gigante capace di sfidare l’egemonia mondiale statunitense. Sulla corsa cinese verso la supremazia, però, da decenni si staglia l’ombra di un pericolo che il Paese stesso ha generato e che rischia di condizionare il sistema economico e politico mondiale: la denatalità.
Eloquenti sono i dati diffusi quest’anno dal Governo cinese: a fine 2022 la popolazione del Paese ammontava a 1,41 miliardi di persone, in calo di 850mila individui rispetto all’anno precedente. A preoccupare è il tasso di natalità, che ha toccato la cifra di 6,7 nascite ogni mille donne contro le 7,5 del 2021. Se mettiamo su una bilancia le 9,5 milioni di nascite da un lato e i 10,4 milioni di decessi dall’altro (a cui vanno aggiunte le incerte stime delle morti per Covid-19), emerge che il tasso di mortalità supera quello di natalità: non succedeva dai tempi del grande balzo in avanti di Mao. Quello del 2022 per la Cina è il peggior quadro demografico degli ultimi sessant’anni, una crisi demografica perfetta. Che cosa è successo?

Controllare le nascite
Quando nel 1949 nasceva la Cina comunista, la famiglia tradizionale era numerosa. L’economia in progressiva espansione richiedeva forza lavoro, incoraggiando così le nascite. Il governo sosteneva politiche a favore della natalità, quali sussidi e proibizione di aborto, sterilizzazione e metodi contraccettivi. Sul finire degli anni Settanta in Cina si concentrava circa un quarto della popolazione mondiale, lasciando alle coltivazioni solo il 7 per cento della superficie; due terzi dei cinesi avevano meno di trent’anni e la generazione del baby boom nata negli anni Cinquanta e Sessanta entrava nell’età riproduttiva.
Il leader cinese Deng Xiaoping si rese conto che nel lungo periodo questo slancio demografico si sarebbe rivelato un boomerang per il Paese, saturando il mercato del lavoro e annullando lo sviluppo acquisito. Nel 1979, la risposta del Partito Comunista Cinese si concretizzò nel più grande progetto di pianificazione familiare della storia. Punta di diamante della strategia era la one-child policy (Ocp, o politica del figlio unico) che limitava a uno il numero di figli che le coppie potevano concepire, prevedendo eccezioni legate alla zona di residenza (un figlio per le coppie delle zone urbane, due nelle aree rurali se il primo concepito era femmina) e alla tutela delle minoranze. Con un’operazione così invasiva delle libertà personali, il Partito chiedeva ai suoi cittadini uno sforzo per cambiare le abitudini culturali di milioni di famiglie. Grandi problemi esigono grandi soluzioni e questa è stata quella della Cina.
Dalla crescita alla crisi demografica
La Ocp è riuscita ad arginare la crescita esponenziale dei nuovi nati con un’efficacia tale da invertire completamente il trend demografico e ribaltare il problema creando una crisi demografica. Le nascite infatti non solo si sono stabilizzate, ma sono crollate al di sotto della soglia minima di ricambio per cui due figli “sostituiscono” due genitori e il numero complessivo di individui resta invariato di generazione in generazione. Di questo passo il numero di neonati sarà inferiore a quello degli anziani, la forza lavoro verrà inevitabilmente ridimensionata indebolendo la crescita economica. La Ocp ha inoltre creato forti fratture sociali, come lo sbilanciamento del rapporto tra neonati maschi e femmine in favore dei primi: sono comuni gli aborti selettivi per favorire primogeniti maschi, considerati in Cina più prestanti e adatti a prendersi cura dei genitori anziani.

Nel 2016, dopo più di trent’anni, il governo cinese ha introdotto la two-child policy (Tcp), che ha esteso a due il numero massimo di figli per coppia. Questa sostanziale modifica ha raddoppiato la capacità di riproduzione cinese; un cambio di passo che mostra la necessità e l’urgenza di mitigare le esternalità negative emerse della Ocp. Ma nemmeno i governi più autoritari possiedono la bacchetta magica e, come ampiamente previsto dagli studiosi, la Tcp ha aumentato le nascite solo nel breve periodo, mantenendo invariato il tasso nel lungo termine. Sono bastati infatti solo cinque anni perché nel 2021 si passasse alla three-child policy, ulteriore allentamento accompagnato da sussidi e agevolazioni. La nuova evoluzione della Ocp dichiara apertamente la necessità di crescita (tre figli creano un saldo positivo di +1 sulla generazione successiva) che però, come dimostrano i dati sulle nascite del 2022, stenta a mostrare efficacia sul tessuto sociale.
Un (altro) cambio culturale contro la denatalità
La scarsa incisività delle politiche dei due e tre figli rivela il più grande effetto che le politiche di pianificazione familiare hanno avuto sulla Cina: un cambiamento culturale della concezione di famiglia. In Cina la famiglia numerosa era comune prima della fine degli anni Settanta, incoraggiata dal confucianesimo e supportata dallo stesso governo. Controllo delle nascite e sviluppo economico hanno plasmato una mentalità diversa nelle nuove generazioni.
Molte giovani coppie preferiscono avere meno figli rispetto ai propri genitori, pur potendo legalmente concepirne di più. Tra le cause ci sono l’alto costo dell’educazione, la crisi economica derivata dalla strategia “Zero Covid” e la difficoltà di conciliare la vita lavorativa delle madri con l’accudimento dei figli. Il modello culturale è cambiato: il governo cinese è riuscito a instillare l’idea che un figlio (meglio se maschio) è la migliore delle opzioni, nonostante ora abbia bisogno che i suoi cittadini procreino di più rispetto a quanto imposto per oltre quattro decenni. Gli occhi dell’Occidente sono puntati sul Dragone: per prendere spunto dalle nuove strategie di lotta alla crisi demografica della Cina, se dovessero risultare risolutive, o per prepararsi nel caso il crollo continui, trascinando con sé i mercati mondiali.