Cambiando l’ordine dei fattori il risultato non cambia, ci insegnano a scuola. La proprietà commutativa delle operazioni matematiche calza a pennello sulla questione della decrescita demografica, un concetto che, per sua natura, poggia su misure scientifiche: percentuali, coefficienti, tassi, statistiche. L’unica variabile che conta, da cui discendono tutti gli indicatori quantitativi, è quella che resta fuori dalle valutazioni di metodo: la maternità. Un atto di cura, che include l’esperienza della gestazione prima ed eventualmente del parto poi, ma parte dal processo di costruzione dell’identità di madre, che sia biologica o «d’anima». Una dimensione coniata da Michela Murgia – ai tempi del romanzo Accabadora – di cui la scrittrice sarda si è resa modello in vita come portavoce della propria istanza e di quelle di molte altre soggettività.
La denatalità è un “problema” di metodo
Nel 2022, il tasso annuo di natalità in Italia è sceso sotto i 400mila nati, ma è solo la punta di un iceberg nutrito dagli ultimi trent’anni, in cui hanno iniziato a registrarsi più morti che nascite. Lo status quo più aggiornato lo ha fornito il presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo, nel corso del convegno tenutosi alla Camera il 14 settembre 2023 (Natalità: work in progress), promosso dalla Società italiana di ginecologia e ostetricia (Sigo):«Nel primo trimestre del 1943 abbiamo avuto 241mila nuovi nati, mentre nei primi tre mesi del 2023 sono stati 90mila. A parità di condizioni, il fenomeno demografico comporterà una perdita di cinquecento miliardi di Pil in vent’anni». Con questo ritmo (ormai consolidato) il record negativo è destinato a infrangersi di anno in anno, e lo dimostra la perdita di un milione di abitanti negli ultimi quattro anni.
I limiti alla procreazione umana: la tragedia di Yerma
Il comune denominatore degli interventi di alcune tra le cariche politiche apicali presenti all’evento – tra il richiamo all’azione delle istituzioni del presidente Lorenzo Fontana e la (presunta) distorsione dei modelli culturali addotta dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano – è stato il tono allarmistico, ma anche una «foga emergenziale» verso il cosiddetto inverno demografico che, a conti fatti, si articola più nelle premesse e nelle intenzioni che nelle ricadute socio-economiche.
Un’attitudine comunicativa diversa ha avuto invece l’intervento di Eugenia Roccella, ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari opportunità, che ha finora improntato le proprie proposte verso posizioni antiabortiste e censorie sul ricorso alla pratica di gestazione per altri (Gpa), in merito alla quale a luglio la Camera ha approvato l’introduzione del reato universale. «Il valore della maternità e paternità non sono temi privati, ma danno il senso del nostro stare al mondo tutti insieme, il senso della comunità».
Essere madri come scelta, personale e politica. Intervista alla psicoterapeuta Nadia Massimiano
La maternità è dunque un fatto comunitario o privato? La concezione del tema, oggi, è legata al mito del sacrificio e della vocazione innata – retaggi della nostra società patriarcale – proiettati sul genere femminile. «La donna, come tutte le femmine di altre specie, è l’unica ad avere la funzione biologica di procreare, ma non può essere concepita come scopo e obiettivo. La donna non nasce per dover procreare, eppure ci si aspetta socialmente che debba essere in grado di farlo e anche che debba desiderarlo, perché è il suo compito evolutivo, il suo desiderio esistenziale», spiega la dr.ssa Nadia Massimiano, psicoterapeuta sistemico-relazionale, specializzata nel sostegno alla genitorialità e clinical manager del servizio di psicologia online Unobravo.
Tra i casi di cronaca che mettono in luce la «conciliabilità forzata» del ruolo che la donna è investita a ricoprire dalla società e quello che è emotivamente e concretamente supportata a sviluppare, risale al giorno di Pasqua quello del piccolo Enea, affidato dalla madre alla Culla per la vita della clinica Mangiagalli di Milano con una lettera di accompagnamento in cui esprimeva l’amarezza e il dolore di non sentirsi all’altezza del ruolo di madre né di poter soddisfare i bisogni del figlio neonato.
Sul senso di inadeguatezza – fisiologico ma anche instillato dalle aspettative sociali – Massimiano individua tre macro-aree deterrenti che ricorrono nel progetto di maternità: «In primis, il fatto che la sicurezza economica e la stabilità di uno spazio fisico vacillano molto in questo momento storico. Non di meno, il timore di fare i conti con un aut aut sul piano professionale e, sul piano relazionale, la rete di sostegno sempre più sfilacciata. Il supporto del livello generazionale superiore risulta indebolito o assente, anche per ragioni anagrafiche, connesse alla minor probabilità che una madre più adulta abbia un nucleo d’origine a fare da appoggio operativo, nonché emotivo ed affettivo».
Tutti questi fattori incidono – in Italia, più che in altri Paesi europei, secondo lo studio delle demografe Eva Beaujouan e Caroline Berghammer – ad allargare la forbice del fertility gap – quella cioè tra le intenzioni di fertilità (numero di figli che una donna vorrebbe o meno avere) e la realtà (il tasso finale di fertilità).
Questo divario conferma quanto aggiunge la psicoterapeuta: «Gli animali concepiscono la maternità come istinto innato, mentre negli umani l’identità di madre va supportata nella sua costruzione ed è soggetta a una componente cognitiva ed emotiva che attiene al costrutto più grande della realizzazione, personale e di coppia, e che può contemplare anche il non desiderare figli». Su questa consapevolezza si può cogliere come «la maternità non origina solo dalla gravidanza, ma include pensiero e progettazione da una parte e desiderio, paura dall’altra. È un percorso complesso, nel corso del quale tutto il conflitto dell’incontro di queste parti deve confrontarsi, modularsi e definirsi. Un processo che non si può esaurire con la nascita».
Maternità, i pericoli del mito atavico del sacrificio
Da un lato la rinuncia additata in modo colpevolizzante, dall’altro la pretesa sociale di una presunta capacità autodidatta di partorienti e neo-mamme nei primi mesi – o anche anni – della propria esperienza genitoriale si allacciano ai casi di violenza ostetrica (non solo fisica). Un esempio è quello della mamma del Pertini a cui, dopo diciassette ore di travaglio, è stato negato l’accesso al nido in favore del rooming in (per cui madre e figlio non si separano mai nelle ventiquattro ore successive alla nascita), che ha portato alla morte del piccolo per soffocamento involontario da parte della neo-mamma, stremata dalla fatica post parto.
Sul caso si è esposta Francesca Bubba, attivista per la maternità: «Dopo una qualsiasi operazione chirurgica di qualche ora non chiederemmo mai al paziente di occuparsi di un altro essere umano da solo: perché invece da una donna che ha appena partorito ci si aspetta che lo faccia? Il sacrificio, come la privazione del sonno, non è una forma di amore per nessuno». Bubba, con l’avvocata Camilla Fasciolo, ha presentato una proposta di legge che disciplini la pratica sanitaria e riconosca un salario per il lavoro domestico e di cura, perché casi simili a questo non si ripetano più.