Il diffondersi delle notizie sulla crisi climatica, dal 2010 in poi, ha portato alla diffusione di una paura all’inizio solo di nicchia ma poi generalizzatasi a causa delle conseguenze che questa crisi ha avuto, soprattutto sui più giovani. È l’eco-ansia che, secondo l’Apa (American Psychological Association), consiste nella «paura cronica del destino ambientale». In altre parole, la preoccupazione e l’ansia per gli effetti dell’impatto antropico sull’ambiente naturale.
A seguito dei cambiamenti climatici, della perdita di biodiversità, dell’inquinamento e della distruzione degli habitat naturali, un numero sempre più alto di persone ha sviluppato questa preoccupazione. L’eco-ansia è diffusa soprattutto nella Generazione Z, ma è presente anche in quelle di mezzo, come i Millennial, che dovrebbero essere pronti a costruire il proprio futuro. Sono le generazioni più esposte ai social media e ai numerosi canali d’informazione, nonché le più propense a un maggiore impegno ambientale.

La paura per le proprie generazioni
Una maggiore conoscenza dell’eco-ansia e degli effetti che i cambiamenti climatici hanno sulla popolazione mondiale porta all’apertura di scenari inediti. Non solo spinge la popolazione, soprattutto quella più giovane, ad adottare quotidianamente comportamenti più sostenibili, ma anche a mettere in discussione questioni più delicate, come la genitorialità e la natalità. Analizzando i dati, è possibile che l’eco-ansia possa presto essere annoverata tra le ragioni che influiscono sul calo mondiale delle nascite, in Italia come nel resto del mondo.
Non sono solo i problemi economici a portare i giovani tra i diciotto e i quarantaquattro anni a non avere figli: tra le cause principali, oggi, si annoverano proprio il cambiamento climatico e le conseguenze che può avere sui nascituri e sul loro futuro. La preoccupazione per ciò che le nuove generazioni si troveranno a gestire è diffusa: si teme un mondo allo sbaraglio, ancora più compromesso dagli interventi dell’uomo che già hanno causato enormi disastri ambientali, così come le conseguenze sulla salute causate dall’inquinamento atmosferico. Perché le generazioni future dovrebbero subire il caos generato da chi è venuto prima? E perché dovrebbero vivere con la stessa eco-ansia dei propri genitori? La decisione di non mettere al mondo figli, in un pianeta in cui le azioni governative per migliorare la situazione ambientale non paiono sufficienti, sembra essere la più giusta per quattro giovani su dieci (secondo un sondaggio realizzato dall’Università di Bath in Inghilterra), che si sentono traditi dalle istituzioni e per nulla sicuri del proprio futuro e, di conseguenza, di quello dei loro discendenti.
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La riduzione della natalità
Per via di queste preoccupazioni, i futuri genitori hanno avviato delle iniziative per spingere i governi a muoversi per migliorare la situazione, trovando nel non mettere al mondo dei figli uno dei modi per portare al centro dell’attenzione la discussione dei problemi climatici. Due di questi movimenti nacquero già nel 2019: #nofuturenochildren, di Emma Lim, e BirthStrike, di Blythe Pepino.
Il primo apparve sul sito di Greenpeace Canada e ottenne oltre tremila firme. Emma affermava che non avrebbe mai fatto un figlio, nonostante ne avesse il grande desiderio, finché il governo canadese non avesse preso sul serio la crisi climatica. Seguendo lo stesso principio, molti giovani nel Regno Unito e negli Stati Uniti aderirono al BirthStrike per ridurre consapevolmente le nascite e spingere la politica ad agire con più forza e consapevolezza. Molti genitori, sia giovani che meno giovani, adottano ancora oggi questo metodo per dimostrare che non sono ignari delle condizioni del pianeta e per la preoccupazione di fare figli in un mondo sempre più inospitale.
La situazione italiana
Nemmeno l’Italia è esclusa da queste preoccupazioni. Secondo Claudio Mencacci, co-presidente di Sinpf (Società Italiana di Neuropsicofarmacologia) e direttore emerito di neuroscienze all’Asst Fatebenefratelli-Sacco di Milano, più si andrà avanti negli anni e «meno faremo figli per colpa del cambiamento climatico»; Roberto De Vogli, professore di psicologia della salute globale all’università di Padova, aggiunge che «la convinzione che non avere figli sia la scelta più etica per il bene del pianeta non è irrazionale».
L’idea di avere dei figli in un mondo sempre più alla deriva pare dunque un problema sia per ciò che viene offerto ai nascituri, sia per ciò che viene fatto alla Terra. Non solo le nuove generazioni possono subire le conseguenze di un pianeta “malato”, come l’asma e altri problemi respiratori dovuti all’inquinamento, ma il pianeta stesso può subire l’effetto dell’intervento umano. Un figlio in meno riduce le emissioni di CO2 di 58,6 tonnellate annue: un significativo miglioramento in termini di salute ambientale. Un nuovo nato, di contro, sarebbe l’ennesima problematica di un mondo già pesantemente danneggiato dal genere umano.
Sta ai governi trovare una soluzione per ovviare non solo alla crisi ambientale, ma anche alla riduzione delle nascite che ne potrebbe seguire.