Il 7 gennaio 2024, centinaia di persone si ritrovano a Roma, davanti alla sede di Acca Larenzia per ricordare Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta e Stefano Recchioni, militanti di estrema destra assassinati nel 1978 da un gruppo armato appartenente all’estrema sinistra. Fanno tre volte il saluto romano, urlando «presente!». Questo è solo uno dei tanti esempi di manifestazioni fasciste di che ogni anno si celebrano in Italia.
I militanti si riuniscono con orgoglio, portatori di un’eredità storica che sulla carta è di un altro secolo, di un altro millennio, ma che nei fatti è contemporanea: quella del fascismo. Per affrontare questo discorso, abbiamo parlato con Francesco Filippi, storico della mentalità, autore e formatore e co-fondatore di Deina, associazione con lo scopo di promuovere un uso consapevole e appassionato della storia e della memoria. È autore di numerosi saggi a tema fascismo come Mussolini ha fatto anche cose buone o Ma perché siamo ancora fascisti?, entrambi editi da Bollati Boringhieri.
Tre tipologie di orgoglio fascista
«In Italia, si possono individuare tre specifiche categorie di fascisti o di persone attigue al pensiero fascista. La prima è quella che io definisco fascisti cosplayer. Si vestono di un nostalgismo che si aggrappa alla paccottiglia, come i busti di Mussolini sulla scrivania, le camicie nere e la visita ogni 28 ottobre a Predappio, dove il duce è sepolto. Sono un numero residuale, che comunque si fa notare. La seconda categoria è quella dei fascisti del terzo millennio, come si sono autodefiniti. Propongono una parte dell’ideologia fascista e parlano di Stato e sistema sociale fascista applicato alla contemporaneità. Anche questa seconda categoria non è molto ampia: a livello elettorale non è mai andata oltre l’uno per cento. C’è poi un’ultima categoria che si intreccia alla storia del regime fascista che definirei di fascisti inconsapevoli. Sono quelli che in un brodo di cultura di destra non si definiscono fascisti, ma non vedono questo periodo in modo troppo negativo né sono preoccupati di certe derive».
Non sempre, quindi, essere fascisti o assumere comportamenti fascisti è sinonimo di azioni eclatanti. I fascisti non sono solo quelli che fanno il saluto romano e l’orgoglio non è sempre così esplicito. «Il tema dell’orgoglio fascista è drammaticamente trasversale a queste tre categorie. I fascisti cosplayer sono orgogliosi di una storia che probabilmente non hanno vissuto, che è stata loro tramandata in dimensioni di carattere epico, che ha poco a che fare con la storia stessa ma molto con l’emozionalità dei singoli. I fascisti del terzo millennio provano orgoglio nei confronti del passato, dettato dalla convinzione della volontà di potenza e dell’idea distorta del ruolo dell’Italia nel mondo durante il ventennio fascista. Quindi anche in questo caso si ha a che fare con una visione forzata della storia. L’aspetto più interessante, ma forse più sottovalutato, è il tipo di orgoglio che si può riscontrare nei fascisti inconsapevoli. Questo, dal mio punto di vista, ha a che fare con il fascismo come fattore non storico, ma antropologico. Il fascismo è stato infatti l’ultimo grande tentativo di laboratorio, di racconto e di costruzione dell’italiano come idealtipo».
Dove finisce il fascista e dove inizia l’italiano?
È questa natura di fascismo e orgoglio fascista inconsapevole che confonde i dibattiti e la narrazione dell’essere italiani. «I fascisti inconsapevoli e una buona parte della società italiana hanno difficoltà a distinguere ciò che è italiano da ciò che è fascista, perché il fascismo ha fornito una buona parte del vocabolario che oggi noi utilizziamo. Basti pensare all’uso del termine “nazione”, immerso nel brodo di cultura del Ventennio. Oggi il problema di chi parla in maniera più o meno sfacciata di orgoglio italiano è che viene assimilato all’orgoglio di matrice fascista».
Questa sovrapposizione è anche conseguenza della mancata resa dei conti dell’Italia e degli italiani con il passato mussoliniano. Come riporta Filippi nel suo saggio Ma perché siamo ancora fascisti?, quando il regime cadde la politica italiana diede un colpo di spugna agli anni precedenti. Le dinamiche internazionali e le necessità interne non richiesero uno sforzo di consapevolezza. Il Ventennio fu interpretato come una malattia momentanea, non come un’espressione dell’identità italiana, forti anche della presenza della Resistenza: l’Italia si è liberata da sola dal fascismo, quindi non è stata veramente fascista.
«Credo molto nella definizione di Umberto Eco: il fascismo non è una filosofia, non è un luogo di pensiero e di costruzione di idee, il fascismo è una retorica, un modo di dire le cose». La domanda sorge spontanea: in tutta questa confusione, come facciamo a capire quando un partito ha preso una deriva fascista? Il governo di oggi si rifà a un’ideologia fascista? «È necessario fare una premessa: l’attuale governo non ha fatto molto, quindi è difficile dare delle connotazioni sulle loro iniziative dirette e non quelle ereditate. Ho notato in generale, nella società e non solo nel governo, un irrigidimento nei confronti di chi manifesta dissenso. Questo governo ha risposto in maniera securitaria e autoritaria a tutte le grandi sfide sociali che si sono poste di fronte. C’è un problema di criminalità? Inaspriamo le pene. Gli studenti protestano? Manganelliamoli. Le droghe? Proibiamole tutte. La politica dello sceriffo è più semplice e costa meno, diventa una politica di racconto, in cui si agisce ma non si fa. Come Mussolini che tra gli anni Venti e Trenta abolì il reato di mafia per poi raccontare di aver sconfitto la mafia, perché nelle statistiche non appariva più». E Vannacci? È fascista? «Il generale Vannacci è un qualunquista e il suo libro è una grande operazione di marketing. Non è Vannacci a essere fascista: è il qualunquismo a essere una delle caratteristiche del fascismo».