«Non avevo tanto paura del mostro del lavoro, ma di portare il mostro – che ero io – nel lavoro». Lo dice come fosse una verità inoppugnabile e fatale. Eva ha trentadue anni, sette dei quali passati a frequentare il Centro diurno per la salute mentale dell’Asl Roma 2, fino all’anno scorso.
«L’occupazione spaventa tantissimo le persone che stanno male. Ma mi sento di porre la domanda: si va in angoscia perché si lavora o viene prima l’angoscia del lavoro stesso?».
Dall’altro capo del telefono, la voce di Eva si riversa in un torrente di ricordi, opinioni e progetti che si sovrappongono. Grazie a questo, il limite visuale delle parole si attutisce. La memoria torna a quando varcava l’ingresso decorato da uno dei gruppi del Centro diurno: piastrelle colorate si staccano dal muro per diventare rombi fluttuanti, e infine rondini, che volano verso un grosso sole giallo.
Il Centro diurno è una struttura semiresidenziale in funzione, appunto, solo durante il giorno, rivolta alle persone che lavorano al proprio progetto di vita con l’obiettivo di una ripresa o di un avvio verso un contesto sociale e un ruolo di tipo lavorativo. «Potevamo decidere di seguire corsi di formazione e prepararci al lavoro», racconta Eva a proposito della terapia occupazionale promossa dal Centro. «Avevamo un’assistente sociale personale con cui facevamo il curriculum e parlavamo delle nostre paure, come fare i colloqui. Trovare una direzione. C’erano i gruppi di lavoro dove ci raccontavamo, affinché potessimo rubacchiare dalle esperienze degli altri o imparare come reagire a un rifiuto. Lavoravamo anche su cose semplici: come non mancare a un appuntamento. Questo ci faceva un sacco paura!».
«Paura» è una parola che torna spesso nel racconto di Eva quando parla del suo rapporto con il lavoro. È stata ricoverata in reparti psichiatrici da quando era piccola fino ai 23 anni. Poi la comunità, le cliniche, la casa supportata per sei anni. «Ma trovarmi un impiego era il mio più grande scoglio», ammette. E anche se adesso sembra aver superato l’ostacolo – convive con il suo ragazzo dallo scorso ottobre, ha trovato lavoro – la paura non si cancella, non si dimentica, resta aggrappata alle parole e ai ricordi.
Secondo Francesca Carrani, specializzanda in Psichiatria presso l’Università Federico II di Napoli, dove si è trasferita dopo aver conseguito la laurea in Medicina a Roma alla Sapienza, «l’instabilità occupazionale influenza la salute mentale dell’individuo perché implica un’instabilità economica che a sua volta si traduce in un’aumentata difficoltà nel rendersi autonomi e indipendenti, non solo nel costruire, ma anche nell’immaginare il proprio futuro. Può significare il dover restare in un contesto di origine stressante, conflittuale o problematico, che a sua volta ha ripercussioni negative sul benessere psicologico».
I disturbi riscontrati più di frequente sono ansia, insonnia, somatizzazioni spesso gastrointestinali e disturbi reattivi del tono dell’umore. «Il disagio che si può esperire di fronte alle avversità non fa sempre della persona un malato psichiatrico. Situazioni di stress possono far emergere patologie mentali», sottolinea la dottoressa Carrani, ma «giovarsi di un supporto psicofarmacologico non può che rappresentare un palliativo, che è destinato a fallire se non si interviene sull’origine dei sintomi».
Agire sulla fonte significa richiedere l’intervento dello Stato e di altri attori politici ed economici, nazionali e internazionali. Così come genitori, scuola e altri spazi di formazione e crescita, ci dice Carrani, «dovrebbero fornire agli individui gli strumenti interiori per fronteggiare le avversità, sia per poter chiedere aiuto in caso di difficoltà sia per poter lottare e trovare il proprio spazio nel mondo».
In questo, i Dipartimenti di salute mentale sul territorio hanno segnato per Eva un prima e un dopo. Ora ha un contratto a tempo determinato a un call center, se l’è trovato da sola perché non poteva attendere i tempi del Centro diurno. Aveva fretta, il tempo è fondamentale. «È la cosa più preziosa che ho». Lo dice come si confida un segreto, con cautela. Ci conferma, però, che è grazie a quello che ha imparato al Centro diurno e al Csm se è riuscita a trovarsi questo impiego in autonomia.
Eppure, nel mondo del lavoro, continua a trovarci qualcosa di subdolo, di imposto. Come essere sotto ricatto. Il «ricattino», lo chiama. Dice che ci vuole coraggio per non accettarlo. «Sto cercando di trovare la mia strada e di farlo nel mio tempo, ed è sempre più difficile. La politica, lo Stato, sembra che vogliano rubare proprio quello…».
C’è un attimo di esitazione – «non voglio che questa diventi una conversazione politica», dice – ma ha un’accusa da fare. «Lo Stato ti dovrebbe assistere, invece lo fa solo quando tu puoi assistere te stesso, quando hai la garanzia dell’indeterminato. Quando parlano di salario minimo, di reddito universale, io sono d’accordo, serve per non accettare condizioni terribili. Il tempo è la cosa più preziosa che ci sia e ci viene rubato ogni singolo giorno. È un segreto che custodiamo in silenzio. Ne siamo coscienti. Io mi sento precaria perché non posso fare quello che voglio, perché ci vorrebbe troppo tempo, qualcuno dovrebbe investire su di me ma non ci sono i fondi. Ma anche non avere uno sprazzo creativo, non vedere l’ora di staccare per riprendere i miei colori… no, non sono d’accordo. Non sono d’accordo sul voler arginare la bellezza».
Allora la domanda sorge spontanea. Se potesse, farebbe altro? «Se potessi, sì…» mormora Eva, con improvvisa timidezza. E cosa farebbe? «Oh, domanda del secolo!». Non lo dice.