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Cosa lega i giovani europei al jihad (no, Hamas non c’entra)

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Il recente attacco di Hamas ha rievocato l’ondata di attentati jihadisti compiuti dall’Isis in Europa tra il 2015 e il 2017. Come si stanno muovendo l’Ue e l’Italia per contrastare la radicalizzazione islamista? Lo abbiamo chiesto a Luca Guglielminetti, ambassador italiano per il Radicalisation Awareness Network

«Allarme jihad», titolavano molte testate italiane ed europee dopo l’incursione di Hamas in Israele dello scorso 7 ottobre. La cronologia degli eventi sembrava non lasciare dubbi sul legame tra la situazione a Gaza e i due attentati compiuti il 14 ottobre ad Arras, in Francia, e il 17 ottobre a Bruxelles, in Belgio. Diversi Paesi europei, tra cui l’Italia, sospendevano l’area Schengen per ragioni di allerta terrorismo e si apprestavano ad aumentare i controlli ai propri confini. Una sola motivazione plausibile: l’ondata di azioni jihadiste che aveva investito gli Stati europei soprattutto tra il 2015 e il 2017 era tornata

Tuttavia, questa lettura parte da un assunto sbagliato, che ne compromette l’intero ragionamento: Hamas e l’Isis non sono la stessa cosa, così come gli stranieri non sono la causa del terrorismo. Trincerandosi dietro le proprie frontiere, l’Unione europea si riconferma una fortezza. Ma il problema siamo noi, giovani nati e cresciuti in Europa

Gli attentati in Europa e la Palestina

Al contrario dell’Isis, Hamas è un’organizzazione islamista che non conduce il jihad globale contro l’Occidente, rimanendo focalizzata sulla lotta anti-israeliana. Non solo: aderisce a un sistema di alleanze regionali che fanno capo all’Iran, una repubblica islamica ispirata all’islam sciita, mentre il settarismo dell’Isis è rigorosamente sunnita. Anche i riferimenti dottrinali sono differenti: Hamas nasce da una costola della Fratellanza Musulmana, che in diversi Paesi arabi – come l’Egitto e la Tunisia – ha accettato le regole democratiche di partecipazione politica; l’Isis, invece, coltiva il disegno di un califfato islamico senza confini. 

In linea con queste distinzioni di natura strategica e ideologica, gli attentatori di Arras e Bruxelles, rispettivamente Mohammed Mogouchkov e Abdessalem Lassoued, hanno giurato fedeltà all’Isis, non facendo alcuna menzione né di Hamas né della situazione a Gaza. Ciò non significa che non possano avvenire in futuro attentati riconducibili alla Palestina ma, come sottolinea il politologo Olivier Roy in un’intervista al settimanale francese L’Obs, «questa assenza [di attentati a sostegno di Gaza, ndr] mostra la sconnessione tra la questione palestinese e la radicalizzazione terrorista in Europa». 

Un ritratto dei giovani jihadisti europei

Pur non avendo relazioni assodate con la Palestina, la radicalizzazione islamista rappresenta tuttora un problema per l’Europa. Uno sguardo alle analisi di questo fenomeno nel periodo di maggiore allarme può fornire un’efficace chiave di lettura per capire chi è il jihadista, qual è la sua età media e cosa lo muove a compiere attentati. 

Sulle pagine della rivista Antigone, le ricercatrici Giulia Fabini e Valeria Ferraris hanno osservato che, dei trenta responsabili dietro alle diciassette azioni terroristiche avvenute in Europa con successo nel triennio 2015-2017, ventinove sono uomini e ventidue cittadini europei. Ma il dato ancora più rilevante è quello anagrafico: l’età media degli attentatori è ventisei anni. Sono insomma quelli che Olivier Roy, in Generazione Isis, chiama «homegrown»: giovani, spesso di seconda generazione, nati in Europa o comunque occidentalizzati e privi di legami con i Paesi di origine delle proprie famiglie

Molti studiosi, soprattutto in Francia – dove il numero di attentati di matrice jihadista è stato il più alto nel continente europeo –, si sono interrogati sui fattori in grado di spiegare la radicalizzazione di questi giovani, nella stragrande maggior parte dei casi cresciuti proprio in Europa. A questo proposito, Roy ricorre alla formula di «islamizzazione della radicalità»

Secondo Roy, infatti, lo zelo religioso, lo svantaggio economico e le discriminazioni razziali dei soggetti radicalizzati non possono rappresentare le cause del jihadismo. Questi giovani jihadisti europei vivrebbero piuttosto una precarietà esistenziale: una sensazione di mancato appagamento nelle società occidentali, che si tradurrebbe in un desiderio di rivalsa, violenza e morte. Quella jihadista sarebbe quindi l’ideologia più credibile oggi sul mercato delle radicalità, in grado di attrarre quei giovani che vivono una frattura generazionale rispetto ai propri genitori, sono immersi nella cultura giovanile del loro tempo – spesso bevono, fumano e vanno in discoteca – e desiderano «trasformarsi da losers in supereroi». 

La radicalizzazione, l’Unione europea e l’Italia

«Al netto dei casi più estremi, la persona radicalizzata non soffre di disturbi psichici ma, anzi, ha una capacità di lettura della realtà che le permette di compiere una scelta politica in questo senso», racconta Luca Guglielminetti, ambassador italiano del Radicalisation Awareness Network (Ran). 

Istituito dalla Commissione europea nel 2011, il Ran è una rete di operatori che lavorano nei rispettivi settori di intervento per promuovere buone pratiche di prevenzione alla radicalizzazione, a beneficio degli Stati membri dell’Unione europea. «La radicalizzazione può assumere una forma cognitiva, quando l’individuo matura delle idee radicali, o comportamentale, quando ricorre alla violenza per affermarle», spiega Guglielminetti. Interpellato poi sulle cause della radicalizzazione dei giovani jihadisti, il rappresentante del Ran propone «un’analisi trasversale, che tenga insieme le crisi sociale, religiosa e identitaria del soggetto, ma anche le politiche migratorie e urbane, spesso ghettizzanti nei confronti di alcune categorie della popolazione, gli equilibri geopolitici e i relativi conflitti».

Non esiste una disciplina unica nell’Unione europea in materia di contrasto alla radicalizzazione dei giovani jihadisti e gli Stati membri promuovono politiche di prevenzione e «disimpegno», finalizzate alla rinuncia del ricorso alla violenza, con modalità, investimenti e risultati molto variegati. «L’Italia», rivela Guglielminetti, «non ha né una legge ad hoc né una strategia e ha finora confidato nella buona volontà delle amministrazioni locali, dei volontari e degli operatori del terzo settore».

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