Si può raccontare la tragedia dei civili di Gaza bombardati da Israele senza parlare di morte. Una storia che comincia dal video di un bambino di cui non si conosce il nome o l’età. Gli occhi già grandi sono spalancati su un mondo che brucia, senza sbattere le palpebre neanche una volta. Shell shock, lo chiamavano gli inglesi durante la Prima guerra mondiale. Quel corpo trema mentre i medici gli fanno delle domande. «Stavi dormendo quando hanno attaccato?», chiedono. Annuisce, con occhi ancora sbarrati e lo sguardo perso.
Ci possiamo interrogare sulla legittimità degli attacchi israeliani anche senza descrivere il sangue o le membra staccate dal corpo. Un aereo, un bombardamento, la speranza che ogni colpo dal cielo serva per decapitare Hamas, l’organizzazione terroristica che il 7 ottobre ha rapito, stuprato, ucciso millequattrocento israeliani innocenti.

E invece, fra le macerie di Gaza ci sono i bambini che dormono nei propri letti, medici che finalmente hanno staccato alla fine di un turno in ospedale lungo una settimana, giovani donne che pregano in una stanza dopo aver trovato rifugio da due scampati bombardamenti.
I civili come vittime, un danno collaterale che il diritto di guerra contempla. D’altronde, il messaggio di Tel Aviv è chiaro: circondare Gaza per stanare Hamas, per evitare il pericolo di una nuova strage di civili israeliani. Si tratta davvero di legittima difesa? Nel contesto dello ius ad bellum, che è definito della Carta dell’Onu, non è semplice dare una risposta, e questa non è automaticamente affermativa.
Cosa dice il diritto internazionale
«Nel 2004 la Corte internazionale di giustizia ha detto che questo diritto, ai sensi della Carta, non si applica per gli attacchi che vengono da un territorio occupato», spiega il professor Marco Longobardo, esperto di diritto internazionale dell’università di Westminster e autore del testo The Use of Armed Force in Occupied Territory. «Nazioni Unite, Comitato internazionale della Croce Rossa e Corte penale internazionale considerano Gaza sotto occupazione israeliana ancora oggi. Se seguiamo il ragionamento della Corte, è inutile discutere di proporzionalità ai sensi dell’articolo 51 – quello che definisce la natura della legittima difesa – perché questo non entra in gioco. Rileverebbe solo la proporzionalità ai sensi del diritto internazionale umanitario, che è una regola diversa». E se anche si potesse prendere in considerazione, quello israeliano non potrebbe essere definito dal diritto come un attacco proporzionato. «Significherebbe che l’uso della forza sarebbe legittimo solo se gli effetti negativi della reazione in legittima difesa fossero minori rispetto all’importanza di respingere un attacco o per prevenire la continuazione di uno in corso». Neanche in questo caso, quindi, si potrebbe parlare di proporzionalità. A rendere più difficile la valutazione ai sensi del diritto internazionale umanitario, invece, è il fatto di non sapere quale sia il vantaggio militare che l’Israel Defence Force (Idf) si aspetta da questi attacchi. Insomma, secondo il diritto internazionale umanitario, attacchi diretti a obiettivi militari possono portare danni ai civili (chiamati danni collaterali) solo se questi non sono eccessivi rispetto al concreto e diretto vantaggio militare atteso.

Il vantaggio strategico e gli attacchi indiscriminati
«È evidente che il vantaggio militare conseguito non è proporzionale ai danni ai civili, se per cercare un capo militare di Hamas che vive in un appartamento in un campo rifugiati se ne rade al suolo metà», dice Riccardo Noury, portavoce italiano di Amnesty International. Il riferimento è all’ennesimo attacco a Jabalia. Un enorme cratere sul terreno. Tutto intorno, gli scheletri dei palazzi che sono stati tirati giù dal bombardamento del 31 ottobre. In mezzo, un numero non precisato di morti. La densità abitativa del campo profughi non lascia scampo: prima della guerra, 116mila persone abitavano in meno di due chilometri quadrati.
Danni collaterali per ottenere un vantaggio strategico? Sì, secondo i vertici israeliani. Per il resto del mondo non è così facile valutarlo. «Accanto alla norma sulla proporzionalità, il diritto internazionale umanitario prevede il divieto di attacchi indiscriminati», puntualizza Longobardo. Bisogna almeno provare a distinguere, insomma, fra la popolazione civile e quella combattente. Un dovere che spetta a entrambe le parti in conflitto, ma che a Gaza è sistematicamente violato sia da Hamas sia da Israele. «L’assenza di questa distinzione da parte di Hamas, i cui miliziani si mischiano alla popolazione civile, non solleva l’altro belligerante dall’astenersi di attacchi indiscriminati», aggiunge.
Sullo stesso punto insiste anche Noury: «Il principio di distinzione non è minimamente considerato. Si scelgono dei bersagli sapendo perfettamente che per colpire un eventuale obiettivo militare si faranno molte vittime civili, soprattutto per gli ospedali e per i campi rifugiati».

Non solo bombe, ma anche il sospetto che il fosforo bianco possa essere utilizzato sui palestinesi nella Striscia. L’Idf nega e non ci sono prove che sia stato usato a Gaza. Ma pochi chilometri più in là, al confine con il Libano, il suo utilizzo è stato dimostrato da Amnesty International e Human Rights Watch.
Diritti umanitari violati tra Israele e Gaza
Non solo armi. Lo spegnimento delle forniture di acqua ed elettricità, l’interruzione delle comunicazioni telefoniche e dei servizi internet, il «trasferimento forzato di popolazione» – così lo definisce il diritto internazionale – il prendere di mira le vie di fuga dalla Striscia di Gaza che sono state segnalate come sicure proprio da Israele: non c’è un solo momento di pace per una massa indistinta di popolazione che, davanti al palcoscenico internazionale, è chiamata a condannare quell’organizzazione militare che si nasconde fra la gente comune. Scudi umani, come vengono definiti impropriamente. «La definizione giuridica indica il civile che volontariamente si posiziona a difesa di un legittimo obiettivo militare», spiega Longobardo. «In questi casi, la morte dei civili non è calcolata ai fini del principio di proporzionalità, perché sta scegliendo di fare scudo con il proprio corpo ed è frutto di una sua scelta». Non è il loro caso, non lo è per i feriti che affollano l’ospedale di al Shifa dove, secondo i vertici israeliani, si nasconderebbero i capi di Hamas. Non è il caso delle vittime che vengono trasportate in ambulanza. Non lo è neppure per chi decide di restare a Gaza e di non rispettare gli ordini di evacuazione: «La popolazione civile non ha nessun obbligo di seguire i consigli dell’attaccante».
Il diritto di Israele di difendere la propria popolazione si è trasformato in altro. Una racconto dove terroristi e civili convergono in una sola figura. «C’è una narrazione sui palestinesi. Quando va bene, sono meritevoli di aiuti umanitari e mai di diritti», dice Noury. «Quando va male, sono raccolti in blocco come soggetto collettivo insieme ad Hamas». E aggiunge: «Israele dimostra di potere applicare punizioni collettive, cioè ritenere due milioni di persone di Gaza responsabili di atti criminali su cui non hanno la minima voce in capitolo e di fronte ai quali non possono opporsi».
Il destino della popolazione palestinese nella Striscia, si riassume così, mettendo in dubbio i diecimila morti registrati fino al 9 novembre, il cui numero continua a salire ogni giorno. Guardare il dito mentre si indica la luna. Chiedendosi se si tratta di legittima difesa mentre sotto le bombe finiscono bambini, giornalisti, medici, sarte. No, bombardare Gaza non è la soluzione del conflitto. Non riporterà in vita i morti, non faciliterà la liberazione degli ostaggi, non chiuderà uno scontro che dura da decenni, non creerà un’alternativa per i giovani palestinesi – i ragazzi con un’età minore di ventiquattro anni sono quasi due terzi della popolazione – che ricordano solo la guerra e la presenza inevitabile di Hamas. E no, bombardare la Striscia come è stato fatto finora non è neppure in linea con il diritto internazionale.
Una sola certezza, nelle parole di Noury: «Gaza, che prima era una prigione a cielo aperto, rischia di diventare un cimitero a cielo aperto».