Rosso, iconico e sommerso dall’oceano, il Golden Gate Bridge di San Francisco appare brevemente in una scena del film d’animazione Il robot selvaggio. Nell’opera di Chris Sanders, il riferimento silenzioso, quasi nascosto ma chiarissimo, è al tema del cambiamento climatico. Gli spettatori più piccoli non sono in grado di riconoscerlo, ma gli adulti sono colti di sorpresa al punto da rivalutare l’intero senso del film grazie a una sola scena.
Il livello dell’acqua racconta una catastrofe già avvenuta, che è quindi il prologo, non il perno, della narrazione. Il robot selvaggio è infatti tutta un’altra storia, di cui basta sapere che la protagonista è Roz, robot che impara a riprogrammarsi diventando consapevole dell’impatto che la sua presenza ha sulla vita nella foresta in cui si perde. Questo fa di Il robot selvaggio una favola ecologista in cui il cambiamento climatico non è il messaggio, ma un elemento già esistente nelle premesse della storia. Una rarità a Hollywood.
Un’assenza che fa rumore
A Glaring Absence, un report del Norman Lear Center in collaborazione con Good Energy condotto nel 2022 su 37.453 sceneggiature scritte fra il 2016 e il 2020, rivela che solo lo 0,6 per cento del campione contiene un riferimento diretto al cambiamento climatico.
L’autotest di Hollywood
Oggi meno del tre per cento dei film e delle serie tv riconosce il cambiamento climatico come tema essenziale. Lo afferma Good Energy, società di consulenza no-profit nata nel 2019 per sensibilizzare in merito all’inclusione del cambiamento climatico nella cultura popolare, Per stabilirlo, Good Energy ha anche brevettato un test, The Climate Reality Check, che chiunque può somministrare, osservando se in un film o una serie tv si fa riferimento esplicito al cambiamento climatico e se almeno un personaggio ne è consapevole. L’unica limitazione è che la storia deve essere ambientata nel mondo reale: sono esclusi i mondi di fantasia.
Secondo questi parametri, per esempio, Il robot selvaggio è l’unico film in grado di superare il test fra tutti quelli candidati agli Oscar 2025, con una menzione speciale a Flow – Un mondo da salvare. Il vincitore dell’Academy al miglior film d’animazione è infatti ambientato in un mondo immaginario, ma altrimenti molto simile al nostro. Anche in Flow, infatti, i protagonisti non sono umani: anzi, nel caso del film lettone non si esprimono nemmeno attraverso dialoghi, ma solo attraverso i versi naturali di un gatto, un golden retriever, un uccello serpentario, un lemure e un capibara. Come per Il robot selvaggio, l’inondazione del titolo è la premessa: è già avvenuta nel momento in cui la storia inizia e ha già distrutto tutto ciò che c’era prima, vita umana compresa. Quel che ne segue è l’avventura del gatto protagonista, che cerca di sopravvivere alla fine del mondo e all’acqua, che lo terrorizza, creando un’alleanza con le altre specie.
Un pubblico consapevole
Lo stesso report segnala che, in un sondaggio condotto sul campione rappresentativo di duemila persone negli Stati Uniti, il 47,7 per cento desidera più contenuti sul cambiamento climatico, soprattutto dopo aver visto il film Don’t Look Up.
Animazione vs. disaster movies
Il regista di Flow Gints Zilbalodis, a Roma lo scorso ottobre, aveva affermato che il cambiamento climatico non è il fine, ma il mezzo del film: «È diventato un tema organico nel corso della narrazione. Ho pensato che fosse un argomento capace di attrarre un grande pubblico, ma non ho mai voluto raccontare un disastro naturale in sé, perché altrimenti nessuno avrebbe voluto guardarlo». L’intuizione di Zilbalodis si è rivelata vincente. Flow (come Il robot selvaggio) dimostra infatti che l’animazione oggi riesce a farsi spazio dove ancora i film live action, legati ai cosiddetti disaster movies quando si parla di ambiente e clima, faticano ad arrivare.
«L’animazione e il disegno animato hanno una forza evocativa maggiore del cinema del reale», affermano anche le registe e animatrici Elisabetta Bosco, Elisa Bonandin, Margherita Giusti e Viola Mancini, che insieme compongono il collettivo MUTA Animation. «Crediamo che questo sia dovuto in parte al fatto che al pubblico venga chiesto di fare uno sforzo maggiore nel momento in cui certe tematiche vengono rappresentate. Con le immagini reali il tema è, il più delle volte, rappresentato dalle immagini stesse; con l’animazione è invece suggerito».
Chi (non) parla di cambiamento climatico
Oltre a Il robot selvaggio, il test del Climate Reality Check è stato condotto su altri film candidati agli Oscar (A Different Man, A Real Pain, Anora, Conclave, Emilia Pérez, Inside Out 2, Sing Sing, Il seme del fico sacro). Per tutti, il risultato è stato negativo.
Animazione è evocazione
L’animazione permette cioè di creare più sfumature. «Il nostro cervello elabora l’immagine e la associa al significato», proseguono. «Questo processo attivo fa sì che molti temi, più sociali e politici, possano essere suggeriti in modo meno didascalico e portati all’interno di una rappresentazione metaforica. Spesso si usa l’animazione per necessità: si veda Valzer con Bashir [film di Ari Folman sui conflitti in Libano culminati con il massacro di Sabra e Shatila del 1982, ndr], in cui la storia sarebbe stata difficile da affrontare senza una quantità necessaria di video di repertorio. Così l’animazione subentra per necessità creative. Ma la sua forza evocativa viene usata anche per suscitare emozioni, raccontare tematiche violente senza la crudezza della realtà».
Film come Il robot selvaggio e Flow rappresentano perciò una realtà possibile, più che mai vicina e drammatica; non la usano però per spaventare il pubblico, quanto per creare un’alternativa, per adulti e bambini. «La fondamentale umiltà del cinema di animazione», secondo le registe di MUTA Animation, «permette, a chi si vuole mettere in gioco, di strutturare un tema su più livelli e, nella sua complessità, di farlo arrivare in modo semplice e immediato».