«Siamo quello che mangiamo», sosteneva Ludwig Feuerbach nella prima metà del diciannovesimo secolo. Alla base del materialismo del filosofo tedesco in fatto di alimentazione c’è l’idea che il benessere psicofisico sia nutrito in misura rilevante dal cibo che ingeriamo, che diviene letteralmente la “sostanza” del nostro corpo spirituale e fisico. Per estensione, le comunità umane fondano la propria identità socio-culturale sulle proprie abitudini di consumo e, nello specifico, compiendo scelte alimentari; basti pensare ai rigidi principi della cucina kosher o ai veti e divieti che più universalmente regolano il consumo di carne a base di alcuni animali piuttosto che altri (e viceversa) in moltissimi luoghi del mondo.
Proprio la carne, storicamente, si contraddistingue come il macro-elemento più dirimente nel panorama della varietà alimentare e, come tale, controverso. Nel secolo scorso la carne rappresentava il metro alimentare della differenza di classe – complice la devastazione mietuta dai due conflitti mondiali – in qualità di cibo da ricchi.
Oggi il discrimine economico resta, ma la dicotomia si è rovesciata a favore del cibo vegetale (plant based), che si trova al centro del dibattito contemporaneo per effetto di un’accresciuta coscienza ambientale ed etica. Quest’ultima è la dimensione più divisiva perché nasconde la convinzione (o pregiudizio) che l’alimentazione vegetale sia un lusso di un’elite radical chic di naïf nostalgici del mito bucolico della vita agreste all’aria aperta liberi dai «condizionamenti del capitale», parafrasando il cantautore salentino Mino De Santis.
L’impatto dell’alimentazione vegetale (e non) sulle risorse idriche
Tra le ultime novità del panorama del cibo cruelty-free c’è la carne coltivata da cellule staminali estratte dai muscoli di animali adulti senza ricorrere alla macellazione. Questo “strano animale” è al centro di un braccio di ferro tra gli interessi collettivi (e particolari) per il mantenimento dello status quo e la necessità di preservare le risorse naturali, alla luce delle conseguenze manifeste del cambiamento climatico. La produzione di carne, infatti, impatta pesantemente sul suolo e sullo sfruttamento delle acque.
«Per produrre un chilo di carne servono quindicimila litri d’acqua, a fronte dei novecento utilizzati per la stessa quantità di frumento», spiega Emanuele Zannini, professore di biotecnologie e industrie alimentari presso la Sapienza di Roma e già senior researcher per lo University College di Cork, in Irlanda. Contestualizzando questa evidenza con il dato per cui, a livello globale, «il consumo di carne è aumentato del 50 per cento negli ultimi vent’anni e che, anche per questo, gran parte dei terreni oggi in Italia sono prossimi alla desertificazione [terreno con scarso contenuto organico, ndr], è sotto gli occhi di tutti che il paragone tra l’impatto della produzione plant based e quella animal based non regge in alcun modo».
La carne coltivata messa alla gogna dal governo italiano
Il disegno di legge italiano che introduce il divieto di produrre e commercializzare la carne coltivata ha avuto il via libera dalla Camera lo scorso 16 novembre – dopo l’approvazione in Senato il 19 luglio – ha consacrato il primato dell’Italia in qualità di custode (e garante) della tradizione. Secondo molti era una fine annunciata, perché aderente alla visione politica che ha dettato il governo Meloni impostando il nome del dicastero di competenza in Agricoltura e Sovranità alimentare.
Non si tratta di quisquilie, tutto il contrario: il concetto di sovranità (sia essa alimentare, nazionale o energetica) rimanda a un retroterra politico chiaro che esercita il proprio potere rinunciando alla possibilità di raccogliere la sfida che invece altri Paesi stanno cavalcando. Parliamo di Singapore, dove nel dicembre 2020 è stata autorizzata la vendita dei bocconcini di pollo coltivato della società americana Eat Juste che vanta nove aziende attive nel settore o di Israele, dove è stato aperto il primo ristorante “sperimentale” che serve il pollo dell’azienda di carne coltivata SuperMeat. Derubricare questa apertura a tradizioni culinarie distanti da quelle occidentali significa guardare il dito invece che la luna. Negli Stati Uniti, infatti, l’autorità sanitaria ha già dato un primo via libera alla commercializzazione dei prodotti delle società Upside Food e Good Meat, sempre a base di cellule di pollo.
Il blocco alle alternative proteiche per l’alimentazione vegetale è una ‘vittoria di Pirro’
E l’Unione europea? Per ora si riserva di prendersi del tempo prima di pronunciare il verdetto sul novel food, non prima di aver terminato controlli accurati, complementari all’approvazione dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) che esprimerà un parere scientifico non vincolante alla Commissione; stesso iter dei prodotti a base di insetti. E «al netto delle opinioni o delle credenze personali, è quello l’unico giudizio che conta di fatto, perché se la Commissione dà l’ok, anche il nostro Paese dovrà sottostare alla direttiva dall’alto e quindi ci troveremo a dover acquistare questi alimenti da altri», osserva Zannini.
Una vittoria di Pirro, per usare un eufemismo: «Mentre qui si festeggia la minaccia scampata, Paesi più lungimiranti del nostro, come i Paesi Bassi, schiacciano l’acceleratore sulla ricerca, a favore della quale hanno stanziato sessanta milioni di euro e, in parallelo, “testano” il sentiment dei consumatori dopo l’approvazione di una legge che disciplina le modalità di degustazione dei prodotti plant based».
D’altro canto, è comprensibile una resistenza iniziale nei confronti di qualcosa che sovverte abitudini consolidate com’è, senz’altro, il passaggio all’alimentazione vegetale. «Il sospetto è legittimo nel consumatore, ma è proprio la ragione per cui questo disegno di legge è un’occasione mancata di progredire e coniugare la sostenibilità ambientale con quella economica. Dell’eticità e l’opportunità dell’alimento non sta al governo disquisire; evocare presunti scenari in cui ci faranno mangiare i prodotti vegetali “senza dircelo” è mero complottismo, perché la sicurezza alimentare è un caposaldo imprescindibile per la comunità europea. Dobbiamo crearci un piano B (anche C, D, E) non per soppiantare le soluzioni esistenti, ma per avere un’alternativa e farci trovare pronti quando si realizzeranno certi scenari».
I pro e i contro delle alternative plant based oggi
L’uso dei termini “sintetica” e “artificiale” non fa che respingere il consumatore, per il quale «la leva emozionale del porre fine allo sfruttamento del sacrificio animale non funge da traino, se escludiamo una bolla già sensibilizzata e informata sui benefici dell’alimentazione vegetale, ma soprattutto altospendente. Non può esserci una transizione alimentare senza accessibilità economica, ma questa presuppone ingenti investimenti nella ricerca e nell’innovazione che eliminino il deterrente del privilegio di poter comprare le poche soluzioni disponibili sul mercato, come invece impone la realtà attuale che subdolamente incoraggia invece il “ripiegamento” sui cibi ultra processati quando si va a fare la spesa, perché sono gli unici a basso costo. E, come dico ai miei studenti, chiedetevi perché».
L’obiezione sulla qualità di molti prodotti a base vegetale che troviamo al supermercato non è priva di fondamento; d’altro canto, è condizionata dalla carenza di visione d’insieme delle istituzioni politiche a cui già accennava Zannini. «Questo perché oggi per produrre un plant based cheese o meat bisogna inserire estratti proteici che generano sottoprodotti di scarto che allontanano il prodotto da quegli standard che gli esperti “rincorrono” in termini di colore, aroma, sapore, consistenza e, quel che è peggio, non permettono a quegli elementi di trovare collocazione in ottica circolare. Un esempio lampante è l’olio di cocco, che proviene da un altro continente e dunque il reperimento sbilancia negativamente il Life Cycle Assessment del prodotto stesso».
Non solo, l’appiglio molto in voga tra i detrattori dei prodotti che assecondano la fetta di consumatori che sceglie l’alimentazione vegetale è la carenza di micronutrienti, che – spiega l’esperto – è una “mezza verità”. Nel senso che «con i lenti progressi a cui siamo esposti, per accontentare un criterio, come la struttura del prodotto (che il consumatore si aspetta), bisogna eliminare fibre e minerali che “interferiscono” con il risultato, in favore di ingredienti purificati come gli amidi e le proteine che però compromettono un apporto nutrizionale completo, che dunque reintegriamo con dei supplementi». Semplificando, la toppa è peggiore del buco. In questo quadro, tentare di cristallizzare la situazione così com’è sempre stata è solo un palliativo temporaneo e ottuso se niente potrà più essere come è sempre stato.
Mangiare vegetale non è un obbligo, ma l’unica scialuppa di salvataggio
Ebbene, anche con le carte (compromesse) che abbiamo ci sono delle soluzioni. La prima è, appunto, il margine – potenzialmente illimitato – di miglioramento della resa per ettaro delle coltivazioni di prodotti vegetali grazie alle tecniche di miglioramento genetico, «come è stato fatto per la fava, la soia, il pisello e si vorrebbe attuare anche per la lenticchia – aggiunge il professore – la cui impronta dell’acqua è fino a dieci volte inferiore a quella degli allevamenti. Se prendiamo ad esempio la macchina più inefficiente in termini di emissioni, i ruminanti, il rapporto tra calorie ingerite e calorie trasformate (in carne e/o latte) è 40 a 1». Senza contare che, a questo bilancio sfavorevole per l’ambiente, manca la quota dell’emissione di metano, un gas climalterante fino a trenta volte più della CO2 e quella di risorse inquinate dalla dispersione delle urine.
Questo non vuol dire che sarebbe meglio fare a meno di tutte le mucche. «Nei sistemi di pascolo estensivo o in zone remote l’allevamento è la soluzione migliore considerando che gli animali mangiano erba ed estraggono energia da materie prime con cui noi umani non possiamo fisiologicamente “competere”. Lo stesso non si può dire nei casi in cui gli animali vengono alimentati con i cereali che invece sarebbero perfettamente idonei a essere consumati da noi».
La vertical farming, l’agricoltura idroponica, la permacultura e l’agricoltura rigenerativa sono solo alcune delle frecce al nostro arco, in qualità di tecniche innovative e scalabili orientate al “bene supremo” della tutela delle materie prime naturali, che non può prescindere da una conversione all’alimentazione vegetale per molti consumatori. Niente di tutto questo, però, può essere intrapreso senza «una politica che non guarda all’oggi per intercettare la pancia del cittadino e le sue esigenze, ma che agisce per costruire una strategia integrata di lungo periodo» conclude Zannini.