«Lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Ha il potere di ispirare, di unire le persone come poche altre cose. Parla ai giovani in un linguaggio che loro capiscono. Lo sport ha il potere di creare speranza dove prima c’era solo disperazione. È più potente dei governi nel rompere le barriere razziali, è capace di ridere in faccia a tutte le discriminazioni». Ventiquattro anni fa Nelson Mandela, che aveva riunito il Sudafrica anche grazie alla capacità di aggregazione dello sport, usò queste parole per spiegarne il valore. Nessun evento è stato in grado di raccontare l’evoluzione storica e di catalizzare l’attenzione globale come i Giochi olimpici grazie a duelli incredibili, sfide avvincenti, ma soprattutto storie di uomini e donne che hanno sfruttato la popolarità della manifestazione per parlare a tutti. I Giochi sono riusciti spesso a mostrare, o addirittura anticipare, i cambiamenti mondiali in corso e a dare voce a nuove esigenze sociali; sono stati la miglior vetrina possibile per rappresentare le battaglie degli atleti in tema di diritti civili e politici. Ci sono gesti, discorsi e scelte prese in occasione dell’evento a cinque cerchi che hanno fatto la storia più di un risultato o di una medaglia. Anche questo è il potere sociale dello sport.
Il potere sociale dello sport contro il razzismo
Fin dalle prime edizioni, quello della discriminazione razziale è stato un tema sotto gli occhi di tutti: basti pensare a Saint Louis 1904 in cui vennero istituite le giornate antropologiche, gare che si svolgevano parallelamente a quelle ufficiali e a cui erano invitate a partecipare le cosiddette razze inferiori, tutte quelle diverse da quella bianca. Una ghettizzazione vergognosa che sarà dura a morire. Un primo grande scossone, però, avvenne nel 1936, quando i Giochi olimpici si tennero a Berlino, in pieno regime nazista: quello che doveva essere l’evento che avrebbe celebrato Hitler e le sue teorie sulla superiorità della razza ariana fu attraversato da un fulmine nero chiamato Jesse Owens. Il velocista americano conquistò quattro medaglie d’oro (100 metri, 200, staffetta 4×100 e salto in lungo): una superiorità schiacciante che non fece piacere agli ufficiali nazisti.
Ancora meno andò loro a genio il comportamento del loro atleta di punta, Luz Long, che si rese protagonista di un gesto tanto semplice quanto straordinario. Durante le qualifiche del lungo, Owens fallì i primi due salti arrivando a un passo dall’eliminazione; Long decise allora di avvicinare il rivale e di dargli dei consigli tecnici. Il risultato fu che Owens, rinvigorito dalle sue parole, riuscì a fare un salto valido per la finale, dove fu poi in grado di vincere proprio davanti al tedesco. I due durante la premiazione sfilarono a braccetto e da quel momento diventarono amici. Un rapporto nato nel contesto più difficile, eppure forte di un’umanità che andò oltre qualsiasi distanza e fu per sempre. Quando Owens tornò negli Stati Uniti dovette scontrarsi con il razzismo di casa sua e con il mancato invito alla Casa Bianca del presidente Roosevelt, mentre Long per il suo agire non ottenne l’esenzione dal reclutamento durante la Seconda guerra mondiale: fu inviato in Sicilia e lì morì. I nomi di questi due uomini oggi rievocano lo smacco subito dal regime nazista e una storia fatta di spirito olimpico nella sua accezione più nobile.
Le discriminazioni razziali, però, erano tutt’altro che finite. Il 1968, in particolare, fu un anno critico in tutto il mondo e culminò con le uccisioni di Martin Luther King e Bob Kennedy. A ottobre erano in programma i Giochi olimpici a Città del Messico, ma i problemi attorno alla manifestazione erano tantissimi e si cominciò a pensare che i cittadini neri degli Stati Uniti non avrebbero partecipato come segno di contestazione contro un Paese che richiedeva la loro presenza per accrescere il medagliere, ma che poi non concedeva loro gli stessi diritti dei bianchi. Solo dieci giorni prima della cerimonia inaugurale, inoltre, un gruppo di soldati sparò contro i manifestanti durante una contestazione studentesca nella capitale messicana: ci furono centinaia di morti, ma si decise di non annullare l’evento, né di cambiarne la sede. Alla fine il ricordo più vivido nella mente di tutti relativo a questa edizione, però, è quello dei 200 metri maschili di atletica.
A vincere fu l’americano Tommie Smith, seguito dall’australiano Peter Norman e dall’altro statunitense John Carlos. Durante la premiazione Smith e Carlos misero in atto una protesta che passò alla storia: salirono sul podio senza scarpe e con dei calzini neri per rappresentare la povertà degli afroamericani e, quando si alzarono le bandiere statunitensi, abbassarono la testa e sollevarono in aria un pugno con un guanto nero. Un’immagine che è entrata nell’immaginario collettivo per l’incisività del suo messaggio, ma che allora non fu apprezzata né dal pubblico né dal presidente del Cio, che li volle espellere subito dal villaggio olimpico. Norman, dal canto suo, non restò indifferente e indossò sulla tuta la coccarda del Progetto olimpico dei diritti umani per dimostrare il suo sostegno alla causa.
Questo gesto determinò la fine della sua carriera: pur avendo i tempi richiesti non fu più convocato in nazionale, né fu più ricordato dal suo Paese. Il più grande velocista australiano rimase solo, cadendo in depressione, ma non rinnegò mai la scelta di avere appoggiato una battaglia in cui credeva come essere umano. Quando morì a portare in spalla la sua bara c’erano loro: Tommie Smith e John Carlos, gli unici che non smisero mai di essergli riconoscenti. Ci vollero 44 anni per arrivare a delle scuse: nel 2012 il parlamento australiano riconobbe il coraggio di Peter Norman e il ruolo che ebbe nel promuovere l’uguaglianza.
Le donne e le Olimpiadi
Le donne furono ammesse ai Giochi olimpici moderni a partire dalla seconda edizione di Parigi 1900, ma solo in alcune discipline considerate consone (golf, tennis). Lo stesso Pierre de Coubertin, l’inventore dei Giochi moderni, sosteneva che «il vero eroe olimpico è l’individuo maschio adulto» e che «nessuno sport praticato da una donna può ritenersi spettacolo degno di essere apprezzato dal pubblico». Come sempre, le conquiste femminili avvennero gradualmente. Nel 1908 le donne parteciparono alle gare di tiro con l’arco e di vela; nel 1912 si aprì alla presenza femminile il nuoto, nel 1920 i tuffi, nel 1924 il fioretto. Nel 1928 alle donne fu permesso di prendere parte alle competizioni di atletica e di ginnastica.
Anche le atlete si ritagliarono il loro spazio e la loro popolarità. È significativa la storia dell’olandese Fanny Blankers-Koen, che si presentò ai Giochi di Londra 1948 a trent’anni appena compiuti, con un marito, due figli, ma anche tre record del mondo. Venne derisa perché troppo vecchia e, soprattutto, le venne detto che avrebbe dovuto restare a casa con i suoi bambini. Ma il suo sogno era troppo grande per cedere ai giudizi altrui. Quell’edizione olimpica per lei fu straordinaria e le permise di eguagliare il mito di Jesse Owens con quattro medaglie d’oro: 80 metri ostacoli, 100, 200 e staffetta 4×100. La chiamarono mammina volante perché tra una gara e l’altra allattava la figlia. È stata la prima a dimostrare che una madre poteva anche avere una carriera nello sport. Un passo alla volta, il numero delle atlete aumentò sempre più: i Giochi di Londra 2012 sono stati i primi in cui le donne hanno gareggiato in tutti gli sport del programma e solo nella prossima edizione di Parigi 2024 si avrà una completa parità di genere, con la partecipazione di 5.250 uomini e 5.250 donne.
Una competizione (anche) politica
I Giochi olimpici hanno sempre voluto essere neutrali rispetto alle vicende interne dei singoli Stati, ma l’idea che la politica dovesse restare fuori è sempre stata irrealistica. Basti pensare ai boicottaggi e ai provvedimenti presi negli anni dal Cio. La Germania, per esempio, fu esclusa dai Giochi del 1920 e 1924 in quanto nazione sconfitta dopo la Prima guerra mondiale (la stessa sorte toccò a Austria, Ungheria, Bulgaria e Turchia) e fu estromessa dall’edizione 1948 per le responsabilità nella Seconda guerra mondiale, insieme al Giappone. Il Sudafrica venne allontanato dal 1964 al 1992 per il suo rifiuto a condannare l’apartheid. Più di recente, la Russia è stata estromessa da Tokyo 2020 per lo scandalo del doping di Stato e non sarà presente neanche a Parigi 2024, così come la Bielorussia, per l’invasione dell’Ucraina.
Talvolta gli Stati stessi hanno deciso di non prendere parte all’evento, come fece la Cina dal 1956 al 1984 in risposta alla partecipazione di Taiwan come Stato indipendente. A Melbourne 1956 Egitto, Iraq e Libano disertarono i Giochi per la crisi del canale di Suez, mentre Spagna, Paesi Bassi e Svizzera evitarono di inviare i propri atleti come protesta contro l’occupazione dell’Urss in Ungheria. Dal 1976 iniziò il periodo dei boicottaggi: a Montréal non ci furono le nazioni africane che non accettarono la presenza della Nuova Zelanda, la cui nazionale di rugby aveva avuto relazioni sportive con il Sudafrica dell’apartheid.
Il boicottaggio più celebre avvenne a Mosca 1980, quando gli Stati Uniti non partirono per protesta contro l’invasione sovietica in Afghanistan e furono seguiti a ruota da molti altri Paesi: alla fine furono soltanto ottanta Stati a partecipare. Quattro anni dopo si assistette al contro-boicottaggio: i Giochi si tennero a Los Angeles e l’Unione Sovietica, insieme ad altri quindici Stati, decise di non aderire. Qualcosa si ruppe, sia per quanto riguarda il ruolo del Cio sia nello spirito olimpico, e ci volle un po’ per fare recuperare all’evento il suo ruolo di strumento per promuovere la pace. Tappa fondamentale in questo senso fu Barcellona 1992, che avvenne appena dopo la caduta del muro di Berlino e la disgregazione dell’Urss: le due Germanie gareggiarono sotto un’unica bandiera, gli ex Stati sovietici parteciparono ancora come squadra unificata (a eccezione di Estonia, Lettonia e Lituania) e nel 1996 furono iscritti come Stati indipendenti.
La regola 50 della Carta olimpica afferma che «non è consentito alcun tipo di manifestazione o di propaganda politica, religiosa o razziale nelle sedi olimpiche» e, nonostante questo principio sia stato “ammorbidito” alla vigilia di Tokyo 2020, rimane comunque il divieto di esprimere gesti di protesta sul podio, di fare dimostrazioni durante le gare e di mostrare bandiere diverse rispetto a quelle del proprio Paese. In realtà, diversi atleti nel corso degli anni hanno trasgredito per l’esigenza di farsi portatori di messaggi significativi. Un esempio è Cathy Freeman, che a Sydney 2000 ottenne nei 400 metri il primo successo di un’aborigena e fece il giro d’onore con due bandiere: quella australiana e quella della sua comunità, per rappresentare le sue due anime riconciliate. Stessa cosa accadde a Rio 2016, quando l’azzurra Elisa Di Francisca, dopo l’argento nel fioretto, decise di salire sul podio con la bandiera dell’Unione europea come segno di vicinanza a tutti i Paesi comunitari che avevano subito attentati terroristici nei mesi precedenti.
Nel corso degli anni i temi più vicini al mondo olimpico si sono evoluti parallelamente al cambiamento della società: dal 2000, per esempio, si è sentita l’esigenza di rendere quello a cinque cerchi un appuntamento sostenibile, riducendo le emissioni e puntando su fonti di energia rinnovabili. È impossibile separare la vita reale dalla bolla olimpica, e forse proprio per questo i Giochi sono qualcosa di molto più grande di un evento di intrattenimento. Per gli atleti rappresentano il punto di svolta della carriera, che può rendere il loro nome eterno; per gli spettatori sono la massima espressione dei valori dello sport e della fratellanza, capaci talvolta di farci credere nell’utopia di un mondo senza divisioni né distanze. Ecco perché ancora oggi, a 128 anni di distanza dalla nascita dei Giochi moderni, ci ricordano quale è stato e quale sarà il potere dello sport nel guidare il cambiamento sociale, unire le persone e promuovere una cultura di pace.