Quando non ci sono bombardamenti o pericoli imminenti, non c’è alternativa: se il flusso mestruale è troppo forte le donne si accucciano nel mare di Gaza. In altri casi, per sostituire gli assorbenti tagliano pezzi della tenda – la arisha – che le ripara dal freddo e dalla pioggia. Oppure, usano i vestiti o i pannolini dei loro bambini. Da quando è iniziata l’offensiva israeliana, gli aiuti umanitari che passano dal valico di Rafah, al confine con l’Egitto, sono del tutto insufficienti. Sono state le richieste delle compagne e sorelle gazawi a spingere il collettivo Gaza Freestyle a organizzare da Milano una raccolta di assorbenti, mutande mestruali e salviettine da far arrivare nella Striscia. «La risposta è stata enorme», racconta l’attivista Rajaa Ibnou: in una settimana hanno raccolto ottocento chili di materiale igienico-sanitario. Per ora, però, sarà distribuito solo a Rafah, perché il nord di Gaza è inaccessibile: «Le nostre amiche rimaste lì stanno morendo di fame: ci raccontano di aver finito anche il cibo degli animali». Chi non è sfollato lo ha fatto per paura di quello che sta succedendo in questi giorni, con i civili schiacciati tra un muro e il mare. A Rafah vivono oggi 1,4 milioni di palestinesi rifugiati interni – cinque volte la popolazione abituale. In una condizione simile, la privacy non esiste: nei rifugi, secondo le stime dell’Unrwa, si conta un bagno ogni 486 persone. Le donne denunciano di essere state intere settimane senza potersi fare una doccia. Scarsa igiene intima e tessuti sporchi a contatto con gli organi genitali aumentano il rischio di contrarre infezioni. Per questo motivo, a Rafah ActionAid ha costruito insieme alle organizzazioni locali altri sessanta blocchi di servizi igienici, che fungono da ambiente protetto per le ragazze e le donne di Gaza.
Lo stress del sovraffollamento, il trauma dei bombardamenti ripetuti e l’allerta costante provocano nelle donne mestruazioni irregolari, che si ripropongono più volte al mese, con grosse perdite di sangue. Allora, in assenza d’altro, il mare di Gaza diventa un alleato. Ma già nel 2022, ogni giorno venivano riversati in mare 90mila metri cubi di acqua fognaria. Ora, senza l’accesso al carburante, controllato da Israele, e con gli attacchi alle infrastrutture, i dissalatori e depuratori usati per l’acqua potabile sono quasi inservibili. E a Rafah, come testimoniato da Medici senza frontiere (Msf), una famiglia di sei persone ha a disposizione appena 3,8 litri d’acqua al giorno. In assenza di acqua pulita e dispositivi igienici, i rischi maggiori sono quelli di contrarre l’epatite virale o di disidratarsi. Perciò, per le donne di Gaza gli assorbenti sono vitali: «L’arrivo del materiale è previsto per fine febbraio nella città portuale di Al-Arish, in Egitto. Poi verrà preso in carico dalla Mezzaluna rossa e distribuito dalle attiviste dei collettivi femministi palestinesi», spiega Ibnou, e chiarisce: «L’intenzione è quella di continuare con altri container nei prossimi mesi».
Alla base della società palestinese c’è la famiglia. E, come dichiara la sociologa Honaida Ghanim alla giornalista di Haaretz Amira Hass, in un regime di occupazione il nucleo familiare rappresenta un meccanismo di supporto, oltre che a una strategia per far sopravvivere la memoria. Nella Gaza dell’ottobre 2023 le donne incinte erano 50mila. A quattro mesi dall’inizio dell’offensiva, i bambini nascono in ospedali strapieni, nei rifugi e in mezzo alle macerie. La quotidianità della guerra e la precarietà delle condizioni sanitarie causano aborti, anomalie e nati prematuri, che senza il carburante per le incubatrici sono destinati a morire. Mentre i fatti si succedono a un ritmo sostenuto, i giornali e le organizzazioni internazionali cercano di afferrare le storie delle donne di Gaza. C’è Maha (nome di fantasia dato da Msf) che dopo l’inizio del travaglio è andata in ospedale ma, non trovando posto, è tornata indietro e ha partorito in un bagno pubblico perdendo il figlio. C’è Esraa Kamal al-Jamalan, che ad Al Jazeera ha raccontato di aver pregato la dottoressa di darle degli antidolorifici mentre le suturava la ferita del cesareo. Ci sono tutte le donne sottoposte a interventi senza anestesia o medicinali, il cui ingresso è anch’esso sotto controllo israeliano. Quelle che per denutrizione non hanno latte per i loro neonati. E nel mezzo della crisi sanitaria della Striscia c’è anche chi, come Navin al-Barbari, denuncia ad Abc News che l’hanno privata della possibilità di godersi i primi momenti felici con sua figlia.
Per ridurre il rischio che madri e figli muoiano o si ammalino, Msf ha aggiunto dodici posti letto nell’ospedale emiratino di maternità. Adesso in tutto se ne contano venti, in quella che è l’unica struttura che assiste le gravidanze rimasta nell’area di Rafah. Rita Botelho da Costa, che è responsabile delle attività di ostetricia di Msf nella Striscia, precisa che senza forniture a sufficienza e con troppi pazienti i medici sono obbligati a dimettere le madri solo poche ore dopo aver partorito, esponendole in questo modo ai rischi del post parto e delle condizioni disperate degli accampamenti.
Il razionamento estremo di medicinali, ospedali, assorbenti, cibo è un attacco alle donne che non è solo violenza di genere, bensì un’offesa diretta al cuore dell’esistenza palestinese. Sin dal primo dopoguerra, durante gli anni Venti del Novecento, quando i mariti hanno cominciato a militare nella resistenza, le donne palestinesi hanno assunto un ruolo fondamentale nella lotta politica della nazione. Questa tradizione di protagonismo femminile è proseguita negli anni, con l’emergere dell’Unione generale delle donne palestinesi interna all’Olp. Fino a organismi di rappresentanza femminili autonomi, e alla prima donna che nel 1996 sfidò Yasser Arafat – futuro presidente – candidandosi alle elezioni nei Territori palestinesi: Samiha Khalil. Inoltre, il legame delle donne di Gaza con i loro figli e con la loro famiglia è parte di un tipo di liberazione femminista che ha le sue radici nell’esperienza collettiva. Fondamenta, queste, per le quali l’assedio israeliano rappresenta la minaccia più concreta. Ma è anche nel ricordo di questo passato che agiscono le ragazze gazawi impegnate a distribuire gli assorbenti raccolti dal collettivo italiano a sostegno della popolazione della Striscia. Da Jumana S., che ha partecipato al documentario Erasmus in Gaza, a Randa H., tra le altre. «Randa era anche riuscita a venire qui in Italia», racconta Rajaa Ibnou: aveva presentato il lavoro delle associazioni femminili e femministe della Striscia per costruire la Casa internazionale delle donne di Gaza. Insieme a una delegazione dall’Italia, avrebbe dovuto inaugurare il luogo dove l’avrebbero costruita. Il viaggio era previsto per lo scorso dicembre. Ma Ibnou chiarisce: «Noi comunque quel progetto non lo abbandoniamo».