Ogni mattina, almeno un uomo si alza e sa che dovrà mostrare al mondo di essere più forte di un leone. Ogni mattina, almeno una donna si alza e immagina che dovrà modificare il suo aspetto per ricevere apprezzamenti da quel leone. È l’effetto di un fenomeno che da molti anni percorre diverse società. Si chiama auto-oggettificazione e deriva dalla distorsione della body self image, l’immagine che ogni persona ha di sé.
«Fin da piccoli si costruisce dentro di noi un’immagine dei nostri corpi», spiega Eleonora Sbraci, dottoressa in Psicologia all’Università di Padova e specializzanda in Sessuologia. «È la body self image, un costrutto multidimensionale che comprende la percezione di sé, le emozioni e gli atteggiamenti nei confronti del proprio corpo. Posso avere dei pensieri rispetto al mio corpo e posso decidere se mi piace o meno».
Dalla body self image alla cultura dell’apparenza
Tuttavia, la body self image può essere alterata. «Le relazioni con le altre persone possono viziare la visione del nostro corpo, fino a renderlo un oggetto da osservare e dal quale trarre sensazioni». E il passo successivo è dare valore allo sguardo oggettificante, come riporta la teoria dell’oggettificazione di Fredickson e Roberts del 1997. «È molto comune per le donne valutare il proprio corpo da un punto di vista prettamente estetico, soprattutto in quelle società dove è presente l’impronta del patriarcato. Qui lo sguardo degli uomini è parametro di giudizio e le donne potrebbero vedere i propri corpi come oggetti che devono essere valutati dagli altri, in special modo dal sesso opposto». L’apparenza prende il sopravvento sulla funzione: «Si passa dall’agency alla body surveillance, la necessità di tenere sotto controllo il corpo».
Alcuni studi sperimentali, condotti da ricercatori quali Marisol Perez nel 2018, Jacinta Lowes e Marika Tiggerman nel 2003, hanno provato che anche i rapporti con la famiglia, in special modo con i genitori, possono contribuire all’oggettificazione. Tutto dipende dai fattori sociali, che possono essere prossimali o distali. Per esempio, l’imitazione del modello materno può influenzare in modo diretto il dialogo che i figli hanno con il corpo. «Già nell’infanzia potrebbe essere più importante per loro l’apparenza rispetto alla funzione. E le bambine potrebbero tendere a imitare gli atteggiamenti che ha la madre rispetto al suo corpo». Poi, nella fase adolescenziale, l’individuo comincia a confrontarsi con i propri pari. Durante la pubertà i coetanei sono un’importante fonte di informazioni. «All’interno di un gruppo si creano regole sociali alle quali ogni componente desidera aderire per sentirsi accettato».
Degenerazione della body self image
Quando il corpo viene preso in considerazione solo a livello estetico, le sue funzioni biologiche subiscono una scarsa considerazione, in favore dei fattori legati alla cultura dell’apparenza. L’oggettificazione diventa auto-oggettificazione. «Occuparsi del proprio corpo in funzione della altrui valutazione può comportare conseguenze degenerative, ma non esiste mai un percorso lineare e sono sempre molti e diversi i fattori che influenzano la situazione di una persona. L’importante è considerare le esperienze pregresse nel loro insieme e non darne per scontate le conseguenze, quindi adottare un approccio multicausale e probabilistico».
L’auto-oggettificazione, distorsione della body self image, «non si limita all’ambito del peso». Può ridurre l’autostima e intaccare l’aspetto dei disturbi affettivi: ansia, paura, isolamento. Nei casi peggiori, depressione. Può portare a casi di dismorfofobia corporea oppure a disturbi ossessivi-compulsivi, ossia l’adozione di comportamenti ripetitivi o rituali, atteggiamenti mentali ricorsivi.
Cosa significa auto-oggettificazione
Nel 1996 Nita Marie McKinley, docente presso l’Università di Washington-Dacoma, e Janet Shibley Hyde, docente presso l’Università del Wisconsin-Madison, hanno individuato alcuni elementi distintivi dell’auto-oggettificazione, da loro definita come la consapevolezza del corpo quale oggetto. Questo costrutto si compone di tre manifestazioni: il monitoraggio costante del corpo o body surveillance, la sensazione di inadeguatezza rispetto agli standard comuni di bellezza, detta body shame, e control beliefs, la sensazione di poter tenere sotto controllo il corpo a patto di compiere un grande sforzo.
«I fattori distali sono un’arma a doppio taglio. Le giovani donne possono subire il confronto con le figure di influencer e le immagini promosse dalla pubblicità». L’esperienza sui social network, come il rapporto tra pari, si basa sulle parole. Tanto le critiche negative quanto gli apprezzamenti, apparenti commenti positivi, possono accentuare la percezione del corpo come piacevole involucro. Entrano in azione discorsi sessualizzanti o molestie, sessuali e non. «Anche un banale complimento sull’aspetto, posto come gesto amichevole, può rivelarsi problematico e produrre lo stesso risultato di un commento negativo. Per quanto innocuo, sta tuttavia incoraggiando una giovane donna a focalizzarsi sull’apparenza».
Non si può più dire niente
«Si può dire tutto, a patto di sentire un autentico desiderio di relazionarsi con l’altro. Prima di esprimersi è bene accertarsi dello stato d’animo della persona con cui si parla e rivolgersi con sincero interesse verso di lei». Una conversazione condotta all’insegna della valorizzazione dell’interlocutore è solo uno dei fattori di protezione che possono contribuire a creare una body self image positiva. «Positivo e negativo non sono gli estremi opposti della stessa scala di valori. Sono due concetti distinti». Apprezzare alcune parti del proprio corpo non esclude la possibilità di provare insoddisfazione nei suoi confronti. «Però potenziare i valori protettivi può aiutare la persona ad accettare il proprio corpo senza riserve. Si possono creare percorsi ad hoc di psicoeducazione e rafforzamento che prevedono la connessione o l’esplorazione delle funzionalità del corpo, della cura dei bisogni, scollegata dalla vanità».
Quell’oscuro oggetto del desiderio: un caso limite
La percezione del corpo come un composto di parti slegate tra loro può condurre le donne ad alterare il proprio aspetto, anche mediante la chirurgia estetica. Lo studio Genital panics: Constructing the vagina in women’s qualitative narratives about pubic hair, menstrual sex, and vaginal self-image mostra fino a che punto la percezione dei genitali femminili da parte delle donne sia legata alla storia della società contemporanea, al ruolo affidato al genere femminile e alla convinzione di dover piacere agli uomini. Breanne Fahs, attraverso testimonianze di un campione variegato di donne, raccoglie alcuni temi ricorrenti: la vagina come una parte del corpo che richiede molta cura, quindi problematica e non adeguata.
Alcune intervistate affermano che «non funziona correttamente» o che non possa essere soddisfacente perché brutta e innaturale. Di conseguenza, aumentano gli interventi invasivi di labioplastica, riduzione delle piccole labbra o ringiovanimento vaginale. «Un caso limite che si fa moda, ma può rivelarsi dannoso. Le donne potrebbero pensare di essere sbagliate; potrebbero diffondersi dei parametri meramente estetici nella società, lontani dal bisogno umano di accettare con compassione e amore la propria self image», conclude Sbraci.
L’obiettivo è percepire il corpo come un’unità organica. Così la persona torna ad accettare il proprio corpo nella sua interezza, con atteggiamento compassionevole e costruttivo anche nei confronti di quegli elementi che non apprezza o di cui si vergogna. Si spezzano i fili. Quello che appariva un burattino scomposto in tante parti slegate tra loro torna ad avere un’identità, con la sua immagine nutrita di tutte le sue funzioni.