In principio fu lo stage. Il ciclo che porta una persona a entrare nel girone del mondo del lavoro precario spesso inizia in maniera banale: «Vieni a lavorare da noi (gratis o sottopagato), almeno fai esperienza».
«In molti casi lo stage finisce col fare da apripista al precariato», spiega Eleonora Voltolina, giornalista e fondatrice di Repubblica degli Stagisti, un progetto giornalistico nato nel 2009 che si occupa proprio di analizzare e raccontare i tirocini nel nostro Paese. «Lo stage di per sé è uno strumento neutro. Se usato bene può essere utile sia per l’azienda sia per il lavoratore, che può formarsi in una professione e diventare utile per l’organizzazione in cui lavora. Il problema però è che in Italia troppo spesso il tirocinio viene utilizzato per sfruttare e sottopagare chi lo compie. E apre così le porte a diverse pratiche che poi vengono normalizzate dal precariato», aggiunge Voltolina.
«Ci sono hotel che creano posizioni di stage per chi pulisce le stanze, oppure supermercati che utilizzano i tirocinanti come cassieri. In questo caso, l’intento dei soggetti ospitanti è sottopagare mansioni considerate semplici, ma che in realtà sono lavori da retribuire. In altri casi, lo stagista viene sovraccaricato di incarichi e addirittura valutato come fosse un dipendente, senza però essere formato. Si tratta di luoghi di lavoro tossici, purtroppo molto comuni in Italia».
Queste cattive prassi finiscono per favorire la normalizzazione del precariato. «Già nel 2009, il libro Sempre giovani e mai vecchi del sociologo Giuseppe Micheli aveva analizzato come la nostra società continui a spostare più in avanti l’età in cui una persona può avere la stabilità di un adulto. Gli stage contribuiscono a questo perché ritardano l’ingresso nel mondo del lavoro e spesso vengono usati dalle aziende proprio per coprire posizioni lavorative», racconta Voltolina. Eppure, teoricamente, il sistema italiano propone un altro strumento molto più dignitoso per far entrare i giovani nel mondo del lavoro: si tratta del contratto di apprendistato che, a differenza dei tirocini, prevede un compenso economico decoroso, oltre al pagamento dei contributi e più garanzie. «Ma proprio per questo molte aziende preferiscono continuare con l’usa e getta degli stagisti piuttosto che sobbarcarsi il costo di un apprendistato».
Certo, nel corso degli anni ci sono stati alcuni miglioramenti: oggi almeno i tirocini extracurriculari (ossia quelli non parte integrante dell’offerta formativa universitaria) devono essere retribuiti, anche se con somme minime. «Il problema, però, è che gli stage curriculari restano invece gratuiti. Su questo tema ha iniziato a muoversi anche il parlamento europeo che, grazie all’azione dell’eurodeputato del Partito democratico Brando Benifei, ha approvato due risoluzioni contro i tirocini gratuiti. Si tratta di un segnale importante, ma bisogna comunque ricordare che spetterà agli Stati membri riuscire a mettere in pratica l’indicazione degli europarlamentari», spiega Voltolina.
Ma come stanno reagendo le nuove generazioni al sistema degli stage e del precariato? «Dopo la pandemia, per quello che mi è stato possibile comprendere grazie al mio lavoro, i giovani sembrano essersi abbastanza arresi all’idea che, per entrare nel mondo del lavoro, lo stage e il precariato siano una tappa obbligata. Certo, esistono fenomeni come le grandi dimissioni e il quiet quitting (fare il minimo sindacale sul luogo di lavoro), ma restano spesso in una bolla fatta da persone che, per competenze o estrazione sociale, possono permettersi di attendere l’offerta giusta. È chiaro che chi non può aspettare accetta di tutto e questo è un problema non da poco».
Anche gli ultimi dati dell’Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca, parlano di un esercito di stagisti: nel solo 2022 sono stati attivati quasi 314mila tirocini extracurriculari. Sui curriculari non ci sono dati disponibili, ma solo stime, che parlano di circa 400mila contratti di questo tipo ogni anno. I due dati sommati arrivano a portare a 700mila gli stagisti presenti in Italia nell’ultimo anno disponibile. Un’armata che, una volta entrata nel mercato del lavoro, ritrova molte delle dinamiche degli stage anche nel precariato.
La pensione e i giovani: un miraggio?
Il viaggio di un precario è spesso lungo, frustrante e può arrivare a incidere sulla personalità di chi lo compie: uno studio della Rmit University’s School of Management ha scoperto che bastano quattro anni di precariato per cambiare in maniera negativa aspetti della personalità come stabilità emotiva, gradevolezza, coscienziosità, estroversione e apertura. E il problema è che la luce in fondo al tunnel, anche ammesso di essere nel frattempo usciti vivi e integri dalle difficoltà della vita precaria, è sempre più lontana e meno rosea: per i giovani che oggi lavorano da precari, la pensione è infatti un miraggio sbiadito.
Per capirlo, bisogna prima di tutto sapere che il sistema pensionistico italiano è al momento contributivo: l’indennità pensionistica è calcolata facendo la media di tutti i contributi versati nel corso degli anni (fino al 1995 era invece di tipo retributivo, basato sulle retribuzioni degli ultimi anni precedenti alla pensione, e quindi verosimilmente più alte, soprattutto nel caso di promozioni durante la carriera). «Un sistema del genere è un problema per chi, come molti lavoratori di oggi, ha una storia contributiva intermittente a causa del lavoro precario», spiega Anna Vinci, fondatrice di Ciao Elsa, una realtà che si occupa di dare consulenze e consigli proprio sul tema della gestione previdenziale.
Secondo Vinci, «ad oggi una persona che lavora in media per quarant’anni senza interruzione avrà come pensione circa il 60 per cento del suo reddito. Una percentuale che però si abbassa al 40-50 per cento per chi ha una storia lavorativa precaria, con contributi discontinui». Il precariato non è comunque l’unico fattore che contribuisce a rendere la pensione dei giovani una chimera: anche il calo demografico influisce perché le pensioni non sono realmente pagate con i contributi di chi è in pensione, ma con quelli di chi lavora.
Di fronte a questa situazione, a partire dal 2005 lo Stato ha cercato di correre ai ripari introducendo la previdenza complementare. «Si tratta in poche parole di un fondo in cui mettere il trattamento di fine rapporto oppure parte dei propri risparmi per poterli riscattare una volta entrati in pensione. L’idea è incentivare chi lavora a crearsi un proprio fondo personale, perché lo Stato sa che le pensioni future non basteranno a mantenere il tenore di vita dei lavoratori di oggi», spiega Vinci, che però nota anche i limiti di questo sistema: «Il fondo pensione è di base percepito come uno strumento molto poco flessibile in quanto disincentiva all’uscita anticipata dei capitali prima di andare effettivamente in pensione. Questo scoraggia alcune persone, ma il vero problema è in realtà proprio l’aspetto informativo. Ad oggi sono ancora troppo pochi i giovani che conoscono i pericoli del prossimo futuro del sistema pensionistico. Secondo i dati dei nostri sondaggi, il motivo principale per cui un ragazzo non affronta il problema è prima di tutto l’inconsapevolezza della gravità della situazione, seguita dall’assenza di strumenti per capire cosa convenga fare davvero».
Insomma, precari, sfiduciati e anche mal informati. E il motivo, secondo Vinci, è soprattutto uno: «Il problema sta anche nel modo in cui le informazioni vengono veicolate. È chiaro che se questo dibattito resta su siti burocratici o riviste di settore le persone non capiranno mai del tutto cosa sta succedendo. Non a caso, noi siamo sbarcati sui social per cercare di spiegare in maniera più semplice e attraente questi temi, ma la trasparenza dovrebbe essere un valore per tutti i soggetti del settore. Purtroppo ancora non lo è». Nel frattempo, di sicuro al precario resta solo la morte.