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Siamo ciò che ascoltiamo

Vinili, cassette, stream. Il cambio dei supporti su cui ascoltiamo la musica ha stravolto il modo in cui la sentiamo? O siamo noi, sempre più frenetici, ad aver imposto all’industria musicale un cambio di passo?

La nostra (dis)attenzione ha stravolto la musica

Non è solo un’impressione degli ascoltatori più attenti: la musica è cambiata. Non parliamo di generi, testi o suoni, che come sempre evolvono con il passare del tempo. A essere mutati sono durata media e struttura di brani pop, rock e sottogeneri di sorta. Le canzoni sono più brevi, il ritornello ha fretta di arrivare e ripetersi mentre passaggi strumentali, bridge, assoli, intro e outro sono sempre più rari. Non è una scelta artistica né una semplice moda, ma l’impronta che il mercato musicale e il nostro modo di fruire la musica impongono agli artisti.

L’influenza reciproca tra musica e il formato che ne permette la riproduzione è una storia che parte da lontano. Oggi siamo abituati allo streaming, che permette ai brani di durare ore e ore non avendo i limiti dei supporti fisici. Eppure, proprio ora che ogni ostacolo “hardware” è venuto meno, le canzoni si stanno accorciando e gli album diventano sempre più simili a EP.

Come e quanto suoni

1877 circa: in principio era il fonografo. L’invenzione di Thomas Edison ha reso possibile l’ascolto di musica registrata attraverso cilindri di ottone sopra ai quali venivano incisi suoni grazie alle vibrazioni di una puntina. Una rivoluzione. Da quel momento non c’è più stato bisogno di musicisti in carne ossa per godersi melodie nel salotto di casa: la musica si era trasformata in un oggetto concreto e tangibile al di là dello strumento musicale. I cilindri avevano la durata di due o tre minuti a seconda del tipo e tanto bastava per radunare famiglie e amici di fronte al cono canterino. Qualche anno dopo, nel 1889, il disco 78 giri inventato da Emile Berliner rese obsoleto il cilindro: permetteva di registrare circa quattro minuti per lato, stessa durata del vinile 45 giri introdotto dopo la Seconda guerra mondiale. Questi primi limiti tecnici hanno reso tra i tre e i quattro minuti lo standard di lunghezza della musica pop che ancora oggi ascoltiamo.

Nel 1948 la Columbia Records introdusse il long play, meglio conosciuto come LP. È l’iconico vinile a 33 giri, quasi tutti ne abbiamo in casa almeno uno: un disco nero sopra cui è inciso un numero maggiore di canzoni rispetto al progenitore a 45 giri. Un disco LP ha una durata compresa tra i 30 e i 50 minuti complessivi: maggiore la durata, minore la qualità della registrazione. Band e cantanti avevano quindi più tempo a disposizione, potendo sviluppare maggiormente la loro musica anche da un punto di vista artistico: è così che nasce il concetto di album come lo conosciamo. Grazie a queste caratteristiche il vinile in 33 (e a 45 giri per i singoli) è stato il formato principale del ventesimo secolo.

C’è poi l’audiocassetta, altro oggetto che oggi esercita la fascinazione della nostalgia vintage. Inventata a inizio anni Sessanta, ben prima del suo momento di massimo splendore negli anni Ottanta e Novanta, con il tempo si è imposta come alternativa ai vinili grazie a dimensioni ridotte, maggiore portabilità e facilità d’uso. Anche la durata delle registrazioni era potenzialmente superiore al vinile, con nastri da 46, 60, 90 e addirittura 120 minuti. La sua popolarità crebbe con l’inserimento da parte delle case automobilistiche dei mangiacassette nelle autovetture, facendo sì che a fine anni Ottanta la maggior parte dei modelli fosse fornito di un lettore di audiocassette. Non solo era possibile ascoltare la musica durante un viaggio ma, a differenza della radio, si poteva addirittura scegliere artista, album e brano da riprodurre. Su questa scia, a contribuire al cambiamento delle regole del gioco fu Sony grazie all’introduzione del walkman, che nel giro di qualche decennio si evolverà adattandosi anche al nuovo formato: il compact disc.

A partire dagli anni Novanta i cd hanno dettato un significativo cambio di rotta. Il passaggio da analogico e digitale è un salto paradigmatico ma, al di là delle sfumature da audiofili, il compromesso tra praticità e qualità delle tracce registrate ha segnato un punto di non ritorno. All’interno di un classico cd è possibile contenere circa 74 minuti di musica, perfetti per ospitare un album di durata standard tra i 50 e i 60 minuti.

Nel nuovo millennio ha fatto capolino la rivoluzione digitale, che ha cambiato il mercato e rimosso le barriere hardware che obbligavano gli artisti a un numero massimo di brani, non senza controversie enormi e, soprattutto, irreversibili. I figli del walkman, i lettori MP3 e gli iPod, non sono riusciti a guidare una transizione dal mercato musicale fisico a quello digitale; anzi, hanno contribuito all’effetto valanga della condivisione illegale di musica scaricata da internet. Siti pirata come Napster hanno deviato la percezione del pubblico verso i prodotti digitali. Non è tangibile? Non lo pago. Con il tempo questo approccio è cambiato: basti pensare alla mole di abbonamenti a servizi online che siamo abituati a saldare mensilmente. Dal punto di vista dell’industria musicale, però, il danno era irreparabile. Piattaforme come Spotify, Tidal o Apple Music hanno riabituato gli utenti a fruire di musica digitale in cambio di soldi, ma il modello economico non è riuscito a tornare ai volumi del passato, soprattutto per i possessori dei diritti. Ciò che gli artisti ricavano dallo streaming sono briciole sul totale del loro fatturato, per cui la voce che fa da padrona è principalmente quella di tour e concerti (ma questa è un’altra storia).

Liberi di essere brevi: il cambiamento della musica

Quella dei formati musicali non è solo una storia di sviluppo tecnico, ma anche di come un’arte si è evoluta grazie (e assieme) alla scienza che la rende fruibile alle masse. Il mercato e l’industria musicale sono mutati di conseguenza, ma con l’avvento del digitale e l’assenza di limiti fisici alla durata delle canzoni sono altri i fattori che oggi dettano regole e impongono paletti agli artisti.

La durata non è più un problema; eppure, i brani si stanno accorciando sempre di più. Il data scientist Michael Tauberg ha studiato i dati della Billboard Hot 100, la più nota classifica di vendite al mondo, evidenziando come la durata media di una canzone si è ridotta di circa un minuto nel giro di soli 20 anni. Dagli oltre tre minuti canonici dell’era pre-digitale siamo giunti ai circa due o tre dei singoli contemporanei. Al fenomeno si aggiungono anche altri importanti fattori come la riduzione della lunghezza dei titoli (in media due parole) e l’aumento della densità del testo, cioè il rapporto tra parole e durata del brano, a dimostrazione che i tagli hanno sacrificato soprattutto le parti strumentali.

In primo luogo, le logiche del mercato streaming hanno cambiato la struttura dei brani più pop per consentire di accrescere i (pochi) guadagni che le piattaforme elargiscono. Perché l’ascolto di una canzone su Spotify e simili venga conteggiato, deve passare un lasso di tempo minimo che solitamente si aggira intorno a trenta secondi. È interesse di artisti ed etichette fare restare l’ascoltatore almeno fino al primo mezzo minuto, tagliando le intro e anticipando quanto più possibile il ritornello. Insomma, andando dritti al punto.

Sulla scia di ciò ci sono anche le più recenti dinamiche social che permettono a una traccia di diventare virale come colonna sonora di video brevi come reel e TikTok o meme. Se prima un certo brano poteva essere associato a una campagna pubblicitaria televisiva di successo (creando talvolta anche un forte legame tra canzone e brand), oggi cantanti e band puntano ad essere l’“audio” di ogni cosa, dai video di cucina fino ai discorsi motivazionali dei fuffa guru. A contare sono quella manciata di secondi – tra i dieci e i quindici – che devono essere orecchiabili e immediatamente riconoscibili: tutto il resto della canzone è zavorra.

Anche il revival di supporti fisici come il vinile si trova d’accordo con una minore durata degli album. Per un’etichetta indipendente o di piccole-medie dimensioni produrre un disco che supera l’ora significa stampare almeno quattro facciate, aumentando costi di produzione e prezzo finale per il pubblico. Dal punto di vista dell’industria, è più conveniente pubblicare dischi snelli da replicare poi nella famigerata edizione deluxe con tracce aggiuntive, live, remix e demo. Minimo sforzo nel riproporre materiale già pubblicato e massima resa in un mercato con margini sempre più bassi.

Ciliegina sulla torta – e forse sunto di tutti questi elementi – siamo noi, utenti, fruitori e soprattutto ascoltatori. La nostra soglia dell’attenzione è ai minimi storici e ciò non può che ripercuotersi anche sui gusti musicali. Il successo di singoli come Bohemian Rhapsody dei Queen (al vertice delle classifiche nel 1976 nonostante i suoi nove minuti di durata) oggi è inconcepibile. Il sito Music Machinery ha condotto un’analisi relativa ai tempi di skip delle canzoni su Spotify. Lo studio ha evidenziato come circa il 25 per cento degli utenti passa al brano seguente entro i primi cinque secondi e il 50 per cento passa oltre prima che la traccia in riproduzione finisca. L’obiettivo è far raggiungere la fine del brano e invogliare ad ascoltarlo nuovamente, se possibile in loop.

Come tutte le arti rispecchiano la società e il momento storico che le generano, anche noi siamo la musica che oggi ascoltiamo: veloce, essenziale e da ripetere all’infinito.

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