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Santificato e conteso. La destra italiana ha arruolato pure De André

A venticinque anni dalla morte, l’eredità del grande cantautore è stata dimenticata o disconosciuta dalla sinistra. Così le sue canzoni finiscono spesso e volentieri per essere utilizzate in modo improprio da una destra alla ricerca di un’egemonia culturale. Con buona pace del loro contenuto. Storia di un cortocircuito

«Si tende a credere che una persona ascolti soltanto musica in cui può rispecchiarsi. Ecco, più di frequente succede il contrario». Non suona affatto strana a Jacopo Tomatis, professore di Popular Music ed Etnomusicologia all’università di Torino, la fascinazione della destra italiana per Fabrizio De André. Quello tra il più celebrato scrittore-interprete della canzone d’autore ed esponenti azzurri, post-fascisti e leghisti può sembrare un accostamento azzardato. Per certi versi, persino sacrilego. Eppure si tratta di una predilezione manifestata, dagli ultimi nei confronti del primo, a più riprese

Basti pensare a quando, nel marzo 2009, dal congresso fondativo del Pdl, l’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano riservò una stoccata all’ipocrisia dell’opposizione. «Si sa che la sinistra dà buoni consigli sentendosi come Gesù nel tempio», scandì l’ex delfino di Silvio Berlusconi dal palco della Fiera di Roma: «Si sa che la sinistra dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Impossibile sbagliarsi, è uno dei versi più conosciuti e ripetuti di Bocca di rosa. Ancora: nel dicembre 2013, l’elezione di Matteo Salvini a segretario federale della Lega Nord proiettò in un posto di rilievo sul palcoscenico della politica un fan appassionato, il quale non perde occasione per ricordare di essere «cresciuto a pane e De André». Tanto da esibirsi durante una festa di compleanno intonando al karaoke La canzone di Marinella

Poco più tardi, nel gennaio 2014 a Viterbo innescò un polverone la scelta di commemorare la figura del cantautore con una mostra fotografica a 15 anni dalla scomparsa. Organizzata, nientemeno, dalla locale sezione di Casapound. Ultima diapositiva: nel maggio 2021, uscì in libreria Io sono Giorgia, autobiografia della leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni. Un libro che, in un passaggio, così recita: «Figuratevi se io, come altri della mia comunità politica, potevamo restare indifferenti ai versi di De André o di altri grandi della musica italiana, per quanto organici alla sinistra del secolo scorso». Un indizio non corrisponde che a sé stesso, due fanno una coincidenza e tre formano una prova. Quando i segnali, però, arrivano a quattro la faccenda s’ingarbuglia fino a diventare controversa, scivolosissima. 

Del resto, l’universo narrativo nel repertorio di De André pullula di emarginati a vario titolo. Complicato, dunque, ascriverlo alla cultura di destra. Ma c’è di più. Perché a rappresentare il bersaglio designato di quelle fiabe e parabole era il piccolo-borghese protagonista del miracolo economico, col suo retaggio di convinzioni e valori: orgoglio, dovere, onore, decoro. Guarda caso, le stesse parole d’ordine a cui la destra continua a fare appello quando si tratta di raccogliere consenso presso una fetta di elettorato pressoché simile. Se a ciò si aggiunge l’origine socio-culturale dell’autore di quelle formidabili scudisciate al senso comune dell’epoca, enfant terrible di una delle famiglie più agiate e in vista di Genova, lo scenario è completo. In vita si sarebbe guadagnato lo sprezzante appellativo di radical chic. Post mortem gli è toccato in sorte un omaggio adorante. Come venire a capo di un simile cortocircuito? 

Secondo Tomatis – autore, peraltro, di un saggio dal titolo ambizioso, Storia culturale della canzone italiana – incombe tuttora sulla generazione di cantautori degli anni Sessanta e Settanta un grosso equivoco. «Mi riferisco», spiega, «alla mitologia costruita attorno alla personalità solitaria del poeta che di giorno osserva, di notte scrive e finisce per assumere su di sé, da solo, tutta la responsabilità della propria produzione artistica. Al contrario, ancora oggi in uno studio di registrazione vige una divisione del lavoro di stampo quasi fordista, tale per cui il cantautore poteva e può svolgere, semmai, il ruolo di regista». In effetti, dando un’occhiata alla lista di crediti dei long-playing di De André ci si imbatte spesso in musicisti di prima grandezza impegnati a mettere a punto il suono dei suoi album: Gian Piero Reverberi, Nicola Piovani, la Premiata Forneria Marconi e Mauro Pagani. «Dove la costruzione del mito, funzionale alle esigenze del mercato discografico, ha fatto breccia è stato nell’immaginario collettivo». 

Il libro

Storia culturale della canzone italiana
Jacopo Tomatis
Il Saggiatore
810 pagine
€ 38,00

Così, la figura dello chansonnier è divenuta un punto di riferimento per un pubblico soprattutto giovanile, ma ampio e trasversale. E perciò difficile da classificare in maniera univoca sul piano dell’identità politica. «Non che lo stesso De André risultasse meno ambiguo a riguardo», avverte il docente. Da libertario, lesse con trasporto i Vangeli apocrifi in clima post-conciliare (La buona novella, 1970). Durante l’onda lunga del Sessantotto si concesse il lusso di contestare la contestazione (Storia di un impiegato, 1973). Scelse il ritratto di un pellerossa americano a cavallo per la copertina del suo album omonimo (Fabrizio De André, 1981) – mossa a cui plaudirebbero il presidente del Senato Ignazio La Russa e, chissà in quale misura, i suoi tre figli: Geronimo, Leonardo Apache e Lorenzo Cochis, i cui nomi traggono origine proprio da quelli dei capitribù nativi, in un sentimento di ostilità al colonialismo yankee. Per finire, mentre edonismo e globalizzazione imperversavano, s’immerse in una dimensione, quella delle civiltà affacciate sul mar Mediterraneo, più appartata e tradizionale (Creuza de mä, 1984). 

«Se in un esercizio di astrazione», invita Tomatis, «provassimo a liberarci dell’ingombrante biografia dell’autore di quei brani, ecco che alcuni di questi perderebbero molti dei loro connotati per diventare, più genericamente, canzoni di protesta, anti-sistema». Fonte d’ispirazione per la sinistra extra-parlamentare tanto quanto per la destra sociale. La prova? «Buona parte delle band o dei solisti della musica identitaria» – la Compagnia dell’Anello, gli Amici del Vento e Massimo Morsello, oggetto di un culto carbonaro da parte dei giovani del FdG-Fuan (organizzazioni giovanile e universitaria del Msi) – «hanno inventato ex novo un canzoniere, accompagnando a testi d’area arrangiamenti che», seppure realizzati con maggiore penuria di mezzi rispetto agli omologhi di sinistra, «riproducono in maniera quasi pedissequa gli stilemi, ora spogli ora ricchi, del cantautorato classico». Ascoltare per credere

Insomma, la destra può considerarsi al riparo dall’accusa di appropriazione culturale? «In parte sì», sostiene Tomatis. «Di concerto con le iniziative istituzionali, le attività della Fondazione a lui intitolata hanno ormai reso Fabrizio De André un patrimonio di tutti». Senza distinzioni. Pari diritti possono vantare sulla stessa eredità, allora, i giovani che ogni 11 gennaio, nel giorno dell’anniversario della morte, si ritrovano nel rituale della Cantata anarchica e gli scaltri consiglieri comunali genovesi, area Noi Moderati-Forza Italia, impazienti di rendere il musicista un prodotto Dop per la Liguria. Con il risultato di arrotondare gli spigoli disseminati da De André stesso lungo trent’anni di esperienza artistica in tredici album e oltre centoventi canzoni, dentro cui trovano posto le storiacce di immigrati, rom, assassini, detenuti, travestiti, omosessuali, drogati, disertori e prostitute. «Tuttavia, ormai prevale un ascolto selettivo, limitato alle canzoni più celebri», sottolinea Tomatis. 

Fabrizio De André™, un prodotto DOP

Il 27 novembre 2023 i consiglieri comunali Stefano Costa (Forza Italia) e Lorenzo Pellerano (Lista Toti) hanno presentato una mozione che impegna il sindaco e la giunta del comune di Genova a istituire un percorso denominato Genova attraverso De André. Il progetto prevede l’apposizione nei luoghi più significativi del capoluogo ligure di apposite targhe che rechino incisi brani di canzoni, scritti e interviste, con l’obiettivo di inserire l’itinerario nei circuiti turistico-culturali.

L’ammissione di un De André, santo laico senza contesto e contraddizioni, nel pantheon ideale della destra «serve perlopiù a mettere in risalto una distinzione in termini di gusto», secondo il significato del termine definito dal sociologo Pierre Bourdieu. Una classe dirigente evoluta, in grado di ascoltare musica in cui non si rispecchia del tutto, aiuta. Anzi, cade come manna dal cielo. Soprattutto se si va a caccia dell’egemonia culturale. 

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