Il 9 agosto 1936 entra nello stadio olimpico di Berlino Son Kitei, atleta giapponese che sta dominando la maratona. L’atmosfera è strana: corre il giro d’onore sull’orlo del pianto e sul podio cerca in tutti i modi di nascondere il disco rosso che ha sulla canotta, simbolo del Sol Levante. In realtà Son Kitei non si chiama così, e non è nemmeno giapponese, o perlomeno non è nato tale: il suo nome è Sohn Kee-chung e proviene dalla Corea, penisola colonizzata dall’impero giapponese a partire dal 1910. Anni dopo, Sohn Kee-chung sarà il tedoforo che porterà la fiaccola dentro il nuovo stadio olimpico di Seoul, celebrando l’inizio dei giochi olimpici del 1988, i primi ospitati dalla Corea del Sud.
L’assegnazione delle Olimpiadi alla Corea
La Corea del Sud arrivò alle Olimpiadi di quell’anno sulle ali dell’entusiasmo. «I Giochi olimpici erano stati assegnati sotto la dittatura e nella più classica idea di soft power l’idea del governo era usarli per migliorare il supporto al regime», afferma Ramon Pacheco Pardo, professore di relazioni internazionali al King’s College di Londra, «ma nel 1987 la popolazione si ribellò e in meno di un anno si arrivò alla democratizzazione del Paese». Un nuovo presidente, Roh Tae-woo, conservatore, da sempre alleato del dittatore Chun ma eletto democraticamente con obbligo di svolgere un solo mandato, si apprestava ad aprire i Giochi che avrebbero cambiato la percezione della Corea del Sud su scala globale.
Fino a quel momento, l’unico altro Paese asiatico che aveva ospitato una grande manifestazione era stato il Giappone, con i Giochi di Tokyo del 1964. Quell’evento, però, non presentava una novità nella scena mondiale: il Giappone era già stato una superpotenza, avrebbe dovuto ospitare i Giochi del 1940 se non fosse scoppiata la guerra e stava compiendo un’operazione di riaccreditamento verso le potenze occidentali. Se l’impero giapponese era stato distrutto dalle bombe atomiche statunitensi, ora al mondo si mostrava la giovane democrazia del Sol Levante. A differenza di Tokyo, Seoul non era riconosciuta nel mondo come una potenza economica: l’obiettivo di Chun, il dittatore che volle fortemente prima i Giochi asiatici del 1986 e poi quelli olimpici del 1988, era mostrare un’economia in crescita, ma di cui si parlava poco, e lo avrebbe fatto anche architettonicamente, costruendo un nuovo e moderno quartiere.
La trasformazione della Corea del Sud
«Seoul è stata trasformata dai Giochi olimpici», spiega Giulia Pompili, giornalista del Foglio esperta di Asia, «con la costruzione del quartiere olimpico, una passeggiata molto anni Ottanta che oggi è diventato un luogo di aggregazione sportiva attraverso una logistica asiatica e razionale che ha spostato gli eventi con molte persone fuori dal centro cittadino». Nuova architettura, nuova democrazia e un evento che finalmente metteva in luce la Corea del Sud nel mondo non come un Paese sottosviluppato e povero, come si vedeva nella serie tv statunitense M*A*S*H (ambientata proprio durante il conflitto che aveva coinvolto le due Coree negli anni Cinquanta), ma come una potenza mondiale, riconosciuta anche dai Paesi comunisti. Quelle di Seoul furono le prime Olimpiadi che videro Paesi capitalisti e comunisti gareggiare di nuovo insieme, dopo i boicottaggi delle due parti a Mosca 1980 e Los Angeles 1984. «Le persone hanno lottato per essere riconosciute e il sentimento principale all’apertura dei Giochi è stato quello dell’orgoglio», continua Pacheco: «L’orgoglio di essere il centro del mondo, di aver vinto il confronto con il Nord, di essere stati riconosciuti anche dai Paesi comunisti come persone con cui si poteva fare affari».
L’orgoglio che ha contraddistinto i coreani per la riuscita dei Giochi olimpici di Seoul, che nonostante lo sforzo economico avevano generato un indotto successivo importante, oltre a turismo e novità nella città, non si è replicato per i successivi Giochi ospitati dalla Corea del Sud. «L’esperienza delle Olimpiadi invernali del 2018 è stata terribile», prosegue Pompili, «a partire dalla scelta della sede, Pyeongchang, una cittadina montana vicina al confine con il Nord, difficile da raggiungere. Il governo avrebbe voluto rivitalizzare un’area negletta dalla popolazione e renderla una meta turistica. Nulla è andato, però, per il verso giusto». I Giochi del 2018 hanno avuto uno scarso coinvolgimento di pubblico, alcune carenze strutturali e quasi tutte le infrastrutture sono state abbandonate dopo un anno. È il rovescio della medaglia per i Paesi organizzatori: non sempre l’enorme spesa genera il risultato sperato, sobbarcarsi un evento del genere comporta anche rischi.
Seoul 1988 rimane un esempio positivo di quello che i Giochi olimpici dovrebbero rappresentare: la volontà di un Paese di utilizzare tre settimane per mettersi in mostra e farsi scoprire dal mondo. Sia per la grande mediatizzazione dovuta ai giochi, sia per la libertà espressiva che la democrazia aveva finalmente concesso ai suoi abitanti, la Corea del Sud riuscì a esportare una determinata idea di sé stessa: un’estetica propriamente sudcoreana, che oggi notiamo nei grandi cantanti pop del Paese o in serie tv e film che hanno avuto enorme risonanza all’estero, come Squid Game o Parasite. Dopo le Olimpiadi sono cresciuti il turismo, il giro d’affari verso la Corea del Sud e la volontà del mondo occidentale di comprendere una nuova cultura. Sicuramente tutto questo sarebbe accaduto lo stesso: democratizzazione, libertà e un mercato solido avrebbero garantito comunque esposizione alla Corea, ma le Olimpiadi ne sono state un acceleratore.