Si chiamano elettrosensibili. Persone di ogni genere ed età affette da sintomi invalidanti quando esposte a campi elettromagnetici (Cem), come quelli di cellulari e Wi-Fi. I sintomi sono reali, ma il rapporto di causa ed effetto con i Cem è messo in discussione dalla scienza
1996. In Italia, alla radio passa Tranqui Funky degli Articolo 31 mentre, più a nord, l’azienda finlandese Nokia decide di puntare il tutto per tutto sulla telefonia mobile, lanciando sul mercato il Nokia 9000 Communicator e l’8110. Internet penetra nelle case e l’e-mail getta un preludio di obsolescenza sul fax. I cellulari cominciano a diffondersi, ma per il momento li compra solo chi ne ha bisogno per lavoro. Il 3310 arriverà solo quattro anni più tardi, rendendo il cellulare un oggetto molto più versatile. La Nokia sceglie uno slogan efficace per il suo modello di maggior successo: Connecting people. Chissà se in Finlandia sapevano quanto questo slogan fosse premonitore. E quanto, per chi si definisce elettrosensibile, avrebbe invece rappresentato una condanna.
I sintomi dell’elettrosensibilità
Nel 1996, Paolo Orio è un giovane veterinario e lavora in periferia di Milano. Decide di comprare un cellulare: anche lui ne ha bisogno per lavoro. Nel giro di pochi mesi, lo usa quotidianamente. Un giorno, il telefono squilla sul tavolo della cucina, mentre lui è in camera. Corre per rispondere: all’altro capo del filo c’è una sua collega. Dopo pochi minuti trascorsi con il telefono appoggiato all’orecchio, Paolo avverte un fastidioso formicolio sul capo e sul volto. Interrompe la telefonata, passa una mano sul viso. Quando riprende la chiamata, la sgradevole sensazione ricomincia.
È l’inizio di una serie di sintomi sempre più invalidanti: insonnia, vuoti di memoria, acufeni, arrossamenti cutanei. Il suo medico li attribuisce allo stress, ma per Paolo non ci sono dubbi: ogni volta che fa uso del dispositivo, i sintomi appaiono. Quando non lo usa, i sintomi svaniscono. Anche per strada, comincia a percepire quando uno dei passanti nelle vicinanze sta per ricevere un messaggio o una chiamata. La causa del suo malessere sono le radiazioni elettromagnetiche emesse dai cellulari.
Da 25 anni, Paolo Orio non ha più un telefono portatile, non ha Wi-Fi in casa, non usa sistemi di allarme e neanche un cordless. L’unico computer che possiede è schermato, come la sua automobile. «Vivo evitando le fonti», spiega quando finalmente riusciamo a parlare al telefono. «Il primo rimedio terapeutico per alleviare i sintomi è quello di evitare le sorgenti. Ma nella nostra società ipertecnologica, sta diventando impossibile trovare spazi in cui trovare sollievo». Nel 2005, fonda l’Associazione elettrosensibili italiani, per offrire supporto a tutte le persone che come lui soffrono se esposte a fonti di radiazioni elettromagnetiche. E non sono poche: secondo uno studio del Consiglio economico sociale e dell’ambiente (Cese) pubblicato nel 2019, il 3 per cento della popolazione europea sarebbe elettrosensibile. Oggi, 22 milioni di persone in tutto il continente.
Effetto nocebo
Sull’elettrosensibilità la scienza è molto cauta. A partire dalla terminologia per indicare il fenomeno. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) preferisce non parlare di elettrosensibilità, bensì di intolleranza ambientale idiopatica con attribuzione ai campi elettromagnetici. Idiopatica, cioè: i sintomi sono innegabili, ma il nesso di causalità con i campi elettromagnetici resta da provare.
Nel 1996 – anno cardine, l’abbiamo capito – l’Oms lancia l’International EMF Project, in risposta alle crescenti segnalazioni di disagio nei confronti delle fonti elettromagnetiche. Un progetto che ha da allora l’obiettivo di raccogliere e valutare tutta la letteratura scientifica sull’argomento. La conclusione, negli anni, è rimasta la stessa: «I potenziali effetti sulla salute dell’esposizione a campi elettrici e magnetici statici e variabili nel tempo richiedono un chiarimento scientifico», si legge sul sito del progetto. Tra i firmatari dei rapporti sulla situazione dell’Italia all’Oms c’è anche il nome di Alessandro Polichetti, fisico e ricercatore all’Istituto superiore di sanità ed esperto di effetti dei campi elettromagnetici sulla salute.
Per lo scienziato, «gli effetti accertati dei campi elettromagnetici sui nostri corpi esistono, ma sono risibili. Che si tratti di onde ad alta frequenza, come quelle emesse dai cellulari, o a bassa frequenza, come quelle emesse dalle linee elettriche ad alta tensione, nessuno di noi è esposto a livelli così alti da sperimentare conseguenze sul proprio corpo. E, anche nel caso in cui questo dovesse succedere, si tratterebbe al massimo di una percezione di calore nel primo caso o una stimolazione elettrica dei tessuti nel secondo». Gli studi effettuati nel corso degli anni hanno messo in evidenza un effetto nocebo inscindibile dalle affermazioni di elettrosensibilità: le persone cominciavano a sperimentare sintomi quando pensavano che la sorgente fosse attiva, non quando lo era in realtà, o al contrario non ne sperimentavano nessuno quando pensavano che la fonte fosse spenta. Temendo l’insorgere di un sintomo, i soggetti ne favoriscono la comparsa.
Non solo nocebo
L’elettrosensibilità non si può ridurre a un effetto nocebo. Cosa si può dire delle persone che cominciano a sperimentare questi sintomi prima di venire a conoscenza di una qualsiasi problematica legata ai campi elettromagnetici? Paolo Orio ne è un esempio. Per Polichetti, la risposta è semplice: «I sintomi sono reali e possono diventare anche invalidanti. Non è detto però che siano dovuti ai campi elettromagnetici. Cercando una possibile soluzione, le persone possono imbattersi nel problema dei Cem e convincersi che questa sia la causa del loro malessere. Ma il problema non si risolve riducendo l’esposizione. Gli elettrosensibili si convincono che sia la soluzione e questo allevia i sintomi».
Ma appunto: i sintomi sono reali. Come si risolve questo problema? Per Orio, si tratta del nodo della questione: «Il Sistema sanitario nazionale, che si tratti di un medico di base o di uno specialista, non è in grado di dare una diagnosi di elettrosensibilità, perché l’Oms, pur riconoscendo che i sintomi sono reali e che la sintomatologia può indurre un sovvertimento totale della qualità di vita, non riconosce il nesso causale con l’esposizione a campi elettromagnetici».
Eppure, a causa di questi sintomi, molti degli elettrosensibili italiani hanno perso il lavoro. Spesso, hanno anche dovuto cambiare abitazione. In molti casi, hanno dovuto convivere con l’allontanamento di amicizie e persone care. «Per fortuna, alcuni medici sono entrati a far parte della nostra associazione», continua Orio. «Anche loro sono elettrosensibili, conoscono il problema e sono in grado di fornire una diagnosi che permette alle persone di mantenere almeno il loro posto di lavoro». Si tratta di un approccio che ignora in parte le raccomandazioni dell’Oms e aggira il Sistema sanitario nazionale, ma non è del tutto inedito: in Svezia l’elettrosensibilità, pur non essendo riconosciuta come malattia, è accettata come motivo di invalidità. Un approccio che, quantomeno, risolve il problema pratico di chi convive con questi sintomi, qualunque ne sia la causa.
Aree bianche: una soluzione all’elettrosensibilità?
Poco più a ovest di Washington D.C., negli Stati Uniti, si trova il West Virginia, una delle zone più selvagge degli States. Seguendo la West Virginia Route 28 si raggiunge la contea di Pocahontas, che ospita il radiotelescopio manovrabile di Green Bank, il più grande del mondo. Si tratta di un dispositivo estremamente sensibile al più tenue impulso elettromagnetico. Per questo, nelle vicinanze, non è possibile usare alcun dispositivo elettronico: per legge, i cittadini di Green Bank non possono disporre né di telefoni cellulare né di televisioni, e nemmeno di forni a microonde. La United States National Radio Quiet Zone (NRQZ), questo il nome dell’area bianca che circonda il radiotelescopio, misura 33.000 chilometri quadrati ed è diventata negli anni un paradiso per gli elettrosensibili.
Aree simili si trovano anche sui Pirenei, in Francia. Il piccolo comune di Amélie-les-Bains-Palalda, stazione termale in declino a pochi chilometri dal confine spagnolo, ne è un esempio. Gli elettrosensibili che appartengono a queste comunità militano per il mantenimento di aree bianche diffuse sul territorio nazionale, per offrire supporto, sollievo e riposo a chi vuole approfittarne.Gli elettrosensibili italiani non fanno eccezione: «Stiamo lavorando per creare un’area bianca in Umbria, ma non posso ancora dire dove di preciso, rivela Orio. Il progetto è ancora in divenire, ma ha l’ambizione di diventare un’«area detox anche per chi non è elettrosensibile, ma ha bisogno di staccare la spina per un po’». Elettrosensibili e no, stay tuned.
Cosa sono le aree bianche
Si tratta di un’area a bassa densità abitativa, in cui non è presente una copertura di rete a banda larga. Sono zone in cui nessun operatore del settore privato ha mostrato interesse a investire. Dal 2003, con la creazione di Infratel, lo Stato si è impegnato a intervenire in queste zone per offrire agli abitanti una connessione. Ancora nel 2020, 204 comuni italiani rientravano nella categoria delle aree bianchissime.
Cosa vuol dire schermare un’abitazione
Per attenuare l’esposizione ai campi elettromagnetici, gli elettrosensibili sfruttano tessuti schermanti, composti di cotone e trame metalliche. Il tessuto viene utilizzato per realizzare tende e zanzariere oppure mantelli e copricapi.