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I disturbi alimentari e il ruolo dei social

Per quanto i social network cerchino di controllare i contenuti destinati agli adolescenti che influenzano il rapporto con il proprio corpo, comunità online come edtwt continuano a germogliare in cerca di motivazione e, soprattutto, conforto

«Solo qui posso esprimermi», dice Selene. Diciotto anni, un disturbo alimentare da quando ne ha dodici. «Qui» è un pezzo di internet in cui nessuno la «prenderebbe per pazza»: edtwt. Sta per eating disorder Twitter e si riferisce a una comunità di utenti di X che hanno o hanno avuto disturbi alimentari. Alcuni di loro cercano consigli online per trattare il loro disturbo, altri ispirazione e incoraggiamento per continuare a perseguire il loro stile di vita – come Selene. 

«Mi piacciono molto i thread informativi in cui si spiega come funziona il digiuno intermittente o come camminare di più. Ma mi va bene qualsiasi cosa, dai meme ai thinspo, cioè le foto di ragazze magre». Consumare questo tipo di contenuti le dà conforto. Scrollare è ispirazione. Le ossa delle altre, una motivazione.

Ma non è stato il social network a riempire il suo cervello di adolescente con immagini pro-anoressia e il desiderio pressante di perdere peso. Selene pensa che abbia svolto, semmai, una funzione di conforto. È un luogo in cui parlare – anche anonimamente, purché si parli – mentre fuori non è concesso. «Conosco edtwt da molti anni, ma penso di esserci entrata seriamente soltanto l’anno scorso, a diciassette anni, quindi non ha influito. Il mio disturbo alimentare è nato dalle mie esperienze fatte dal vivo. I social o edtwt non c’entrano nulla».

Siamo abituati a pensare all’azione di internet su di noi come a un atto di corruzione, qualcosa di negativo che altera e manipola i nostri pensieri in seguito a lunghi periodi di esposizione e fruizione di contenuti. E se invece fare parte di una comunità online in cui esprimersi e ritrovarsi nell’esperienza altrui potesse aiutare ad affrontare il proprio disturbo?

Secondo la dottoressa Eleonora Stingone, psicologa specializzata in neuroscienze e cyberpsicologia, «nel momento in cui io ne parlo e sento l’esperienza degli altri, che siano anche esperienze in cui mi viene proposto un modello che non va bene per la mia salute, questo mi può aiutare a gestire il disturbo: ritrovarsi nell’esperienza degli altri significa essere meno soli, fare parte di qualcosa, anziché sentirsi un pesce fuor d’acqua. Nel caso di Selene, l’aspetto relativo alla sua dismorfofobia [disturbo da dismorfismo corporeo, ossia ansia e preoccupazione cronica per un presunto difetto fisico, ndr] può essere aiutato dal social media, dalla community, dal fatto di avere qualcuno che vive la tua stessa esperienza, ma anche e soprattutto dal vedere il modello sbagliato nell’altro: tu lo vedi in un altro, quello è un altro corpo e puoi guardarlo in maniera obiettiva, dall’esterno. Stavolta non sei tu. È lì che si frammenta qualcosa». 

Il disturbo legato all’alimentazione di Selene, però, aggiunge uno strato in più al disagio che prova rispetto alla sua immagine riflessa nello smartphone. La dottoressa Stingone, infatti, insiste nel tracciare una linea di confine fra dismorfismo corporeo e disturbi alimentari: «Esistono piccole distinzioni tra questi concetti che bisogna tenere in considerazione. Per essere ossessionati dall’idea di essere magri non necessariamente mangiamo poco: possiamo essere magri mangiando normalmente e avendo un rapporto perfetto col cibo, però distruggendoci con lo sport. In quel caso non si parla di anoressia: il soggetto ha un’alimentazione corretta ma ha un comportamento compulsivo, che è quello dello sport praticato in maniera ossessiva, al fine di essere magro».

Il dismorfismo corporeo è, perciò, una patologia del disturbo ossessivo compulsivo, in cui si adottano comportamenti ripetitivi, ossessivi, rituali che vengono eseguiti, legati a disturbi d’ansia. Può avere a che fare con l’intera figura oppure con singole parti del corpo come il viso, e non può quindi essere ridotto al solo ambito alimentare. E, soprattutto, non si tratta di una patologia di tipo femminile, ma è presente in modo trasversale a prescindere dal genere. Può trattarsi dell’occhio da gatta, delle labbra a canotto, delle gambe scheletriche oppure dei bicipiti grossi o dei capelli perfetti ma, in ogni caso, spiega la dottoressa Stingone, «nel disturbo dell’immagine corporea, l’immagine del sé che abbiamo interiorizzato, quella di cui siamo insoddisfatti e contro cui proviamo molta rabbia, non corrisponde alla realtà». Oggi, soprattutto dopo l’avvento dei selfie, i filtri e tutto ciò che ci ha permesso di vederci in ogni momento della giornata e guardarci attraverso lo smartphone, possiamo parlare nello specifico di dismorfia digitale, una forma di disagio nei confronti della propria immagine digitale in funzione di un sé ideale.

L’ideale è costruito culturalmente. Dal momento che internet è diventato parte integrante della nostra giornata, l’esposizione alle vite e ai corpi perfetti degli altri sui social media può tradursi in una perdita di autostima. Le comunità online, oltre a fornire un senso di appartenenza, possono finire anche per romanticizzare la sofferenza, al punto da farla diventare desiderabile. In edtwt spesso il disturbo alimentare è un aesthetic. E X/Twitter non è l’unico social in cui si riuniscono gli utenti che glamorizzano i disturbi del comportamento alimentare: nell’era dell’Ozempic (farmaco per trattare il Diabete di tipo 2 impropriamente utilizzato per dimagrire) possiamo trovarli anche su TikTok (edtok), Tumblr (edtumblr), oltre che nei subreddit di Reddit e in vari forum e blog sul web.

«È la parte negativa di internet», conviene Stingone. «Nel caso degli adolescenti, l’unica cosa da fare è che i genitori supervisionino. E anche i nonni, che spesso vengono sottovalutati, sono in realtà fondamentali. Sono d’accordo con la scelta di Instagram di introdurre gli account per teenager, però allo stesso tempo bisognerebbe educare gli adulti al digitale. Quando parliamo di genitori di adolescenti ci riferiamo a una fascia di persone nate tra gli anni Settanta e Ottanta, persone che hanno vissuto un periodo della loro vita senza tecnologia, e quindi hanno un approccio differente. Mancano loro gli strumenti per comprenderla. I genitori devono imparare a usare i social per capire meglio come educare i figli a usarli in maniera consapevole».

La dottoressa Stingone ci ricorda inoltre che, fino all’età di ventidue anni, il cervello dei ragazzi ha delle aree meno sviluppate che ancora devono maturare, tra cui l’area che regola le nostre scelte, il nostro processo di pianificazione e la nostra motivazione. Tenendo conto di questo, i genitori dovrebbero guidare i figli nella comprensione di quello che vedono online. «Per esempio», continua Stingone, «di fronte al video della ragazza magrissima che mostra le parti più minute del suo corpo, il genitore dovrebbe chiedere alla figlia cosa ne pensa, cosa le piace di quel video, così che possa rifletterci da sé. Bisogna sempre chiedere agli adolescenti cosa pensano. Se i genitori sono aperti e disponibili, i figli si concentreranno di più sulle loro parole. Solo dopo i genitori dovranno spiegare l’importanza di accettare il proprio corpo così com’è, senza paragonarsi ai modelli di riferimento, e riuscire a far capire ai figli l’importanza del distacco. Distaccarsi dalle cose degli altri, dire “non sono io”, da soli è difficile, ma se hai qualcuno che ti sostiene…».

Quando a Selene chiediamo: «I tuoi genitori, di tutto questo, che sanno?», lei risponde: «Niente».

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