Ogni ventidue Bahman (l’undici febbraio), gli iraniani ricordano la Rivoluzione islamica e la caduta della dinastia Pahlavi. È festa, con fuochi d’artificio e addobbi. Per alcuni. Per tutti gli altri, invece, lo scorso è stato il quarantacinquesimo anniversario dell’arrivo del «regime malefico». «Chi è contrario», spiega l’attivista Rayhane Tabrizi, «urla, alla sua morte». Le impiccagioni di dissidenti politici sono la quotidianità. Spesso i condannati sono accusati di crimini che non hanno commesso. Le donne nelle carceri subiscono violenze per estorcere loro confessioni forzate, vengono spogliate davanti alle telecamere e molestate. Accade anche che i cadaveri, sia delle donne che degli uomini, vengano rubati. E i loro organi rimossi. A febbraio sono stati impiccati a decine. Gran parte erano uomini. Nello stesso momento, alcune donne hanno iniziato uno sciopero della fame per protestare contro le loro esecuzioni. Lo scorso anno, invece, un prigioniero politico, un uomo, si è messo in sciopero della fame contro l’obbligo di indossare il velo per le donne. «Si è creata complicità tra uomini e donne e anche tra classi sociali. Ricchi, poveri, intellettuali. Ma c’è solidarietà anche tra etnie e religioni diverse. Questa è collaborazione. Una appoggia l’altro. Uno lotta per l’altra». A parlare sono Rayhane Tabrizi e Pedram Entezar, rispettivamente fondatori delle associazioni Manaà e Donna Vita Libertà. I due attivisti vivono in Italia da anni e si battono per mettere in luce la vita nel loro Paese d’origine, l’Iran. Lo fanno collaborando, insieme, senza distinzioni di sesso, perché «fare anche gli interessi altrui è fare il lavoro giusto».La diaspora iraniana in Italia è una di quelle più piccole e giovani. Gli iraniani che vengono in Italia lo fanno per motivi di studio o lavoro. «Anni fa ognuno faceva la propria vita. Ora, dopo un anno e mezzo dall’uccisione di Mahsa Amini, possiamo dire di esserci radunati», precisa la fondatrice di Manaà. «Collaboriamo per organizzare eventi, interveniamo nelle scuole: la comunità è diventata un luogo in cui possiamo parlare insieme». La base formale, ufficiale, della sua associazione le permette anche di fare mozioni e raccogliere firme, scrivere alle istituzioni, ricevere donazioni.
Pedram, invece, è uno dei fondatori dell’associazione Donna Vita Libertà. «In questi anni la mia generazione si è sentita in dovere di fare qualcosa», ricorda. «La guerra tra generi che è stata creata deve terminare».
Le associazioni sono «poche, ma costruite». E gli attivisti ne raccontano alcune difficoltà. «Collaborare non è poi così facile perché tanti di noi provengono da contesti non politici», chiarisce Tabrizi. «Molti di noi sono nati dopo il 1979, in una forte dittatura, quindi ora stiamo imparando la democrazia». La lontananza dalla famiglia è fonte di preoccupazione: c’è chi evita di partecipare alle manifestazioni per timore che i genitori possano subire violenze. Alcuni hanno più volte ricevuto minacce. Pedram è uno di loro, ma non intende fermarsi.
Al momento, il corpo della donna è uno dei campi di battaglia più calpestati. «La Costituzione considera le donne come fonte di errore e dà loro meno valore», sottolinea Rayhane. «Per avere un passaporto è necessario il consenso del padre o del marito. Se un uomo ti tocca, dicono che la colpa è tua perché lo hai provocato». Spesso durante il procedimento di divorzio la donna è svantaggiata. «Sono stato sposato e ho divorziato. Eravamo concordi, siamo tutt’ora in buoni rapporti, ma i giudici hanno cercato di favorire me e massacrare i suoi diritti», racconta Entezar. «Le donne in questi anni hanno subìto molte censure, dal comportamento al modo di vestirsi, ma anche nel trovare lavoro in ambienti considerati maschili», continua. «Io sono in Italia da quando ho dodici anni. Devo dire che questa cosa, un po’, c’è anche qui. È un Paese molto più sviluppato su questo aspetto, ma c’è ancora da fare».
In passato Rayhane era un’assistente di volo, lo è stata per anni. Girava il mondo e soffriva nel vedere la differenza tra la vita dentro e fuori dall’Iran. «Le cose che le donne non possono fare in Iran sono molte, anche ridere ad alta voce», aggiunge. «Ma la prospettiva non è condivisa dalle famiglie. Gli uomini delle nostre famiglie ci sostengono». È sempre stata incoraggiata all’indipendenza e alla realizzazione professionale. «Mio padre mi ha sempre spinta a frequentare l’università perché più studi, più la tua mente si apre, hai più aspettative e vuoi di più dalla tua società», ricorda. «In passato molte famiglie erano riluttanti a far entrare le femmine nella società, poi il regime ha involontariamente dato loro più spazio e le ha aiutate a contestare i propri diritti».
Il regime, nonostante la repressione, avrebbe quindi aiutato le donne a contestare i propri diritti? «Sì. Hanno dato spazio allo studio. E se hai più conoscenze, hai più possibilità», puntualizza. «Non vogliamo tanto una rivoluzione femminista, quanto una rivoluzione al femminile». Lo slogan storico è «Donna, vita, libertà». «Non è stato creato dopo la morte di Mahsa o durante il suo funerale, come spesso è stato indicato, ma appartiene alla comunità», conclude.
Gli uomini danno il loro sostegno, un forte sostegno. Desiderano che in prima fila ci siano le donne. Ma sono coinvolti. E si fanno sentire. «Mi batto perché noi uomini dobbiamo molto alle donne iraniane», precisa Pedram. «Anni fa alcuni uomini erano convinti che la negazione dei diritti delle donne non ricadesse anche su di loro. Ora c’è maggiore consapevolezza. Hanno capito che per far sì che i loro diritti vengano rispettati, devono venire rispettati anche quelli delle donne», incalza Tabrizi, che sostiene che l’obiettivo non sia tanto conquistare o riottenere un diritto per il proprio interesse, quanto far sì che ci possa essere libertà di decidere. «Ci sono donne che si battono per l’abolizione dell’obbligo di indossare il velo, anche se loro stesse lo indossano», spiega. «L’obiettivo è dare a tutti la possibilità di scegliere».
Di questa situazione si parla poco. «Ma si è iniziato a parlare molto di Iran. E questo è un bene», mette in luce Rayhane, convinta che il tumulto geopolitico possa anche attirare l’attenzione sul contesto sociale. Pedram è abituato a svegliarsi e leggere notizie di nuovi morti, nuovi impiccati. «Quello che sta succedendo ha effetti anche in Europa. Il mondo va protetto». Sente la propria missione importante per il futuro dell’umanità. «Danno alle persone giudizi irregolari, le portano in tv a dire cose che non hanno mai fatto», racconta. «Bisogna far qualcosa di concreto e diventare la voce di chi non ha voce. Questo asse del male sta arrivando a toccare il mondo».
Resistere richiede dedizione. «A volte ci si sente impotenti guardando un regime così forte», dice Tabrizi. «Per trovare la spinta per continuare, penso a Narges Mohammadi. Ha investito più di trent’anni nell’attivismo, sono dieci anni che non vede i suoi figli, ma ha deciso di continuare a combattere», ricorda. «Immagina trent’anni in cui chiudi gli occhi su famiglia, carriera, salute mentale e fisica, su tutto, lottando con un regime che non sai quando cadrà. Per me e per tanti di noi è simbolo di resistenza».
Attualmente, la premio Nobel per la Pace si trova a Evin, il carcere degli oppositori politici. «Come lei, tante detenute non si fermano nemmeno lì dentro. Mandano mozioni, si mettono in sciopero della fame», chiarisce Rayhane, per poi fermarsi un secondo, quasi a rendere omaggio al loro operato: «Sentendo queste storie non si può restare fermi». «Come è possibile che un pezzo di stoffa valga così tanto?», chiede Rayhane a sé stessa, retoricamente. «Il velo ha la stessa funzione del muro di Berlino», spiega. «Non si tratta dell’oggetto in sé, ma del suo ruolo. Finora il regime ha resistito, ma se cede sul velo, ha perso tutto. Qui sta l’importanza delle donne». Al telefono Rayhane sembra avere paura, ma allo stesso tempo non averne affatto. «Parlatene», conclude. «Non vogliamo essere dimenticati».