«Entro il 2050 dovremmo avere una società dove le persone saranno libere dai limiti del corpo, dello spazio e del tempo, e dove le capacità dell’essere umano saranno rafforzate dall’intelligenza artificiale». La pensa così Hiroshi Ishiguro, l’unica persona al mondo ad aver creato un robot a sua immagine e somiglianza.
Il rapporto dell’umano con la macchina è un tema che infuoca l’immaginario, spesso in termini apocalittici. Film, cartoni animati, libri e videogiochi sono pieni di robot e supercomputer con cui dobbiamo lottare. Il conflitto umano-macchina pervade la narrazione che ne facciamo. «Il punto non è se un giorno le macchine si sostituiranno a noi: questa idea è un effetto del guardare in modo poco equilibrato al rapporto tra tecnologia e innovazione. Non è tanto essere schiavi [delle macchine, ndr], ma capire quanto la tecnologia ha bisogno di noi per funzionare», spiega Massimiano Bucchi, professore ordinario in Scienza, Tecnologia e Società all’Università di Trento. Ma come trovare l’equilibrio e superare il conflitto?
La macchina come servo dell’uomo
Il cambiamento è spesso accompagnato dall’innovazione tecnologica: quante rivoluzioni sono nate dall’interazione umano-macchina? Fu una macchina, quella a vapore, che diede il via alla rivoluzione industriale; fu grazie a una macchina, il cannocchiale, che Galileo poté confermare la teoria di Copernico sulla rivoluzione dei pianeti; in tempi più recenti, gli elettrodomestici (prima fra tutti la lavatrice) hanno contribuito all’emancipazione delle donne, generando per loro più tempo libero. In tutti questi casi, le macchine sono strumenti controllati dall’uomo; servono chi le utilizza attraverso funzioni precise e prevedibili.
Visions de l’an 2000, cartoline di un futuro passato
A fine Ottocento, in Francia, venne stampate una serie di cartoline che illustrano l’uomo del Duemila e il suo rapporto con la macchina. Visions de l’an 2000, da una cartolina all’altra, mostra un viaggio onirico tra macchine da mettere in spalla per volare e tecnologie simili a giganti tritacarne che assorbono la conoscenza dai libri e la trasmettono agli alunni. Già a fine Ottocento l’immaginario restituiva un’idea di profonda unione e non necessariamente di conflitto tra umano e macchina, dove quest’ultima semplifica la vita e la eleva, permettendo all’umanità di realizzare anche attività altrimenti impossibili.
Le innovazioni digitali hanno cambiato il modo in cui ci approcciamo alla macchina e alla tecnologia, stratificandone i risultati. Con solo qualche tap possiamo attivare lo smartphone e avere una serie di vantaggi, come raggiungere gli amici, controllare l’estratto conto e ottenere indicazioni. Ma le conseguenze sono, appunto, complesse: rinunciamo alla nostra privacy in favore di servizi gratis, regaliamo dati e informazioni che ci profilano e spesso ne diventiamo dipendenti, perché queste sfruttano il meccanismo del rilascio della dopamina del nostro cervello.
Automi e robot: quando la macchina si sovrappone all’uomo
Le macchine sofisticate a cui siamo abituati hanno origine nei tentativi di automazione del Settecento. Infatti, già allora si potevano osservare automi umanoidi programmati per suonare alcune melodie con il flauto o il piano e anche scrivere.
Questo aspetto evidenzia un elemento cruciale del rapporto uomo-macchina: non quello del servo-padrone, e nemmeno quello di simbiosi. La macchina si sovrappone a noi.
In questa ottica è curiosa l’origine della parola robot. Deriva dal ceco robota (lavoro faticoso, servitù) e fece la sua comparsa nell’opera teatrale di Karel Čapek Rossumovi univerzální roboti (I robot universali di Rossum), nel 1921. Nell’opera, «robot» indica gli operai artificiali capaci di lavorare, ma non di pensare. In origine il robot voleva essere una critica a quelle persone che si applicano, senza pensare, proprio come fanno i robot a cui siamo abituati al giorno d’oggi. Fu Asimov ad associare il significato di robot a una concezione positiva di lavoro senza bisogno di pensare, formulando le Tre leggi della robotica apparse per la prima volta nella raccolta di racconti Io, robot, nel 1950.
Il robot per sua definizione imita l’umano perché assolve compiti per noi e, allo stesso tempo, ci toglie la possibilità di svolgere quegli stessi compiti. Lo sviluppo degli smartphone, dell’internet delle cose, dei social, degli assistenti vocali e delle IA in generale ha portato nuovi sviluppi in questo senso.
La pigrizia ci rende servi della macchina
Bucchi, nel suo ultimo libro Confidenze digitali, evidenzia come in media prendiamo in mano il cellulare in mano novantasei volte al giorno. Quale altra macchina è così agganciata alla nostra quotidianità? Questi strumenti ci permettono di accedere a nuove opportunità, facendoci però dimenticare gesti e ragionamenti della attività che deleghiamo.
Di fatto, l’uomo compie un sacco di azioni con le macchine del nuovo millennio, ma tra algoritmi che si sostituiscono alle nostre decisioni, IA che ci compilano l’agenda, macchine che si guidano da sole, assistenti vocali che inviano messaggi al posto nostro, noi ne compiamo sempre meno. Le nuove tecnologie, per vendere, fanno infatti leva sulla nostra pigrizia: forniscono servizi utili, non indispensabili, riducendo il nostro pensiero critico su ciò che deleghiamo loro. Ma allora, chi è il vero robot? L’uomo impigrito o la macchina?
Lavoro e macchina: è tempo di un nuovo luddismo
Amazon ha inaugurato l’uso di robot umanoidi nei suoi magazzini e ha annunciato la sperimentazione delle consegne via drone in Italia; a Verona, a novembre 2023, ha aperto il primo supermercato d’Italia senza personale; le IA sono ormai di uso comune in numerosi lavori, creativi e non solo – a volte le usiamo solo per divertimento. Quanto dobbiamo preoccuparci? È tempo di un nuovo luddismo? Dobbiamo annientare le macchine che ci tolgono il lavoro? O ha ragione Asimov, quando affermava che le macchine nel lavoro portano riorganizzazione e benessere?
Se si guardano i dati, l’allarmismo è ingiustificato. Se prendiamo la fascia d’età 35-44 anni e confrontiamo le rilevazioni dell’Istat sugli occupati nel 2002 e poi nel 2022, notiamo che il tasso di occupazione è intorno al settantacinque per cento in entrambi i casi. Lo stesso si manifesta negli altri gruppi: le variazioni non sono catastrofiche. ChatGPT scrive, ma non lo fa senza input umano. Forse arriverà il momento in cui misure come il reddito di cittadinanza serviranno a compensare gli umani rimasti senza lavoro per causa delle macchine, ma non possiamo sapere quanto sia vicino.
Il futuro del conflitto tra umano e macchina
Le macchine si intersecano nelle nostre vite a ogni livello: veicolano i nostri stati d’animo, scandiscono le nostre giornate, ci supportano nel lavoro, ci sfidano nel trovare nuovi equilibri.
Il conflitto umano-macchina può risolversi: l’innovazione portata l’innovazione portata da quest’ultima deve essere gestita in modo virtuoso, per dirla come Bucchi nel suo ultimo libro, Confidenze digitali. Trovare l’equilibrio è una necessità «e non possono farlo i grandi colossi, non hanno interesse a farlo», spiega l’autore. «Il punto fondamentale è usare e vivere bene la tecnologia. Abbiamo una sorta di dipendenza nei suoi confronti, anche se crediamo di averla in pugno. Questi strumenti, senza di noi, non esistono. Se compro un telefonino nuovo e lo lascio nel cassetto, questo non potrà funzionare. Le sfide vanno affrontate con saggezza ed equilibrio, in modo virtuoso. Dobbiamo agire su due livelli, quello personale e quello collettivo. Per il primo, ognuno di noi deve raggiungere più consapevolezza ed evitare di essere fagocitato, per esempio, dallo smartphone. A livello collettivo, invece, occorre trovare modi per massimizzare gli effetti positivi e minimizzare quelli negativi».