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Se il pop non è più pop

Il ruolo della musica pop in un mercato pensato per generi: dei vestiti che stanno sempre più stretti

In una recente conversazione tra amici su alcune scene musicali recenti, uno di loro si è chiesto che senso avesse parlare di generi, o più in generale farlo nel panorama contemporaneo. Quello che sembrava una semplice chiacchierata da bar nasconde una questione che nei forum e nelle discussioni online è piuttosto ricorrente.

Spacchettando bene l’interrogativo, sorgono in realtà due domande collegate tra loro ma discutibili singolarmente. La prima è sul senso del definire i generi musicali in assoluto. La seconda riguarda l’elefante nella stanza, il pop in quanto fenomeno così ampio e variegato da stare stretto nel concetto di genere.

Una questione di generi

I generi come insieme hanno senso per esigenze pratiche: immaginate di andare in un negozio di dischi e dover cercare qualcosa in uno scaffale con tutto alla rinfusa, oppure di dover usare un’applicazione di streaming musicale con nello stesso calderone Mozart, black metal, elettronica sperimentale e samba. Per quanto l’idea possa piacere ad alcuni (e non pochi), ne risulterebbe un’esperienza scomoda ai più. I generi sono inoltre utili per studiosi, critici o commentatori: per poter identificare differenze, similitudini o tracciare l’evoluzione di un artista, scena o – per l’appunto – genere, è necessario dare delle etichette. 

È anche interessante guardare i criteri in base a cui si definisce un nuovo genere, cosa che viene spesso fatta quando l’annessa scena musicale si è già affermata. Il modo più semplice è analizzare le caratteristiche tecniche. Due esempi semplici sono lo swing e il reggaeton: in entrambi casi si va a guardare il ritmo delle percussioni, quasi sempre accompagnato dagli stessi strumenti e tematiche trattate nei testi. Altri casi sono meno scontati: a volte a fare da collante sono solo poche caratteristiche comuni o la genesi dalla stessa scena musicale, magari per contrasto, non senza differenze significative nella stessa etichetta come nel caso della new wave o di tutti i generi post-qualcosa. In altri casi, più che un genere in senso tecnico si raggruppa in base a un’estetica comune: ne è il caso più emblematico la trap, che non ha caratteristiche uniche e ben distinte ma è piuttosto un vestito di sonorità che può essere applicato più o meno ovunque, insieme a una serie di tematiche che si sono consolidate dopo essere state ereditate dalla cultura hip-hop.

Bisogna rimanere consci dei limiti delle tassonomie, che sono sempre fallaci e che vanno costruite considerando gli scopi per cui saranno usate. Ci saranno sempre eccezioni o brani difficili da classificare: non è sempre facile o possibile distinguere un pezzo techno-hardcore da uno hardstyle. In altri casi si fa proprio fatica a far rientrare la produzione di un artista in una specifica etichetta. È il caso di gruppi come gli Oingo Boingo e i System of a Down, che hanno sempre rifiutato le etichette loro attribuite, rispettivamente new wave e nu metal, data la varietà del loro repertorio. 

Tracciare confini tra un genere e l’altro è una questione tutt’altro che banale: se una netta linea che demarchi il confine tra blues e rock o tra rock e metal è impossibile da tracciare, è anche intuitivo separare in maniera istintiva il primo dall’ultimo. In più andrebbero considerati tutti i legami di derivazione di generi, sottogeneri, micro-generi ed è impensabile che l’ascoltatore medio si costruisca un’ontologia che lega tutte queste categorie anche solo per casi più ampi come la musica elettronica o il jazz. 

Inoltre, i generi hanno una loro storia, si evolvono e si contaminano, dando vita a macro-generi, casi in cui nella stessa etichetta si accumulano lavori così differenti tra di loro che il collante originale sembra venire meno: ne è un esempio la musica vaporwave, in cui l’ossessione di sperimentazione oltre i limiti, unita a quella di catalogare ogni nuova tendenza, ha reso il nome un movimento sui generis adatto a lavori estremamente diversi tra loro come quelli di Young Bae e Blank Banshee. Spesso a evolversi sono le sottoculture legate ai generi musicali o le relative estetiche visuali: è il caso del jazz e del rock e dei loro innumerevoli sottogeneri e derivati che, pur avendo perso quasi del tutto il valore controculturale e l’impatto sulla cultura di massa, rimangono terreni di sperimentazione molto fertili.

E allora il pop?

In questa complessità si intuisce perché non è così banale parlare di pop, parola che rompe tutti i discorsi sui generi. A complicare il tutto c’è il fatto che il pop come genere viene spesso confuso con la categoria della popular music, un termine ombrello usato dai musicologi che raggruppa la cosiddetta musica leggera e tutto ciò che è commercialmente rivolto alle masse, in contrapposizione alla musica colta e a quella folkloristica.

In sostanza, il pop non è solo tutto quello che troviamo in cima alle classifiche ma quello che accomuna Taylor Swift, Annalisa, Prince e i Tears for Fears. Rimane in ogni caso una parola che raggruppa così tanti artisti dalla produzione variegata e inserita in un filone così lungo che fa strano pensare sia lo stesso calderone di Claudio Baglioni e Britney Spears.

Il pop è apparentemente una contraddizione: ciò che è popolare e allo stesso tempo industriale, ma non solo. Deve mettere insieme cantautori brillanti e performer con alle spalle eserciti di produttori, innovazione e tradizione, frivolezza e temi profondi. In sostanza tutto e niente, ed è per questo che molti arrivano a contestare il senso stesso dei generi musicali. Guardandolo da vicino vediamo che in realtà la parola non fa altro che riflettere la complessità dell’industria musicale, soprattutto nel caso italiano.

Un artista come Eminem non è una pop star, ma allo stesso tempo è una figura a cui la cultura pop deve molto: anche tralasciando tutto il discorso sulle anti-icone, non è di certo un caso isolato. Uno dei motivi per cui il genere pop è così complesso e variegato è che ha un rapporto di influenza reciproca con i vari generi con cui doveva coesistere nelle classifiche, dando vita a fenomeni come il pop punk e spiegando com’è possibile che Michael Jackson e Madonna si spartiscano lo stesso pubblico, seppur con sonorità piuttosto diverse.

C’è anche da smarcare la questione dell’indie, che rompe ulteriormente il discorso. La parola nasce per indicare le produzioni indipendenti, senza l’ausilio di grandi case discografiche. Questo in un periodo in cui non solo l’autoproduzione era complessa dal lato tecnico, ma garantiva anche delle sonorità di qualità più bassa, per via delle differenze della strumentazione e delle maestranze necessarie a produrre la musica delle classifiche. Per alcuni, l’autoproduzione era una scelta radicale che non si limitava alle demo per farsi conoscere; per altri era solo una fase necessaria per entrare nel circuito musicale. Il discorso non era legato a un genere particolare fino a quando la scena indipendente, rinominata indie, finì per sviluppare una sua estetica, venendo trattata come un genere a sé stante e, in un certo senso, diventandolo. In questa ambiguità dovremmo considerare Caparezza o gli Elio e le Storie Tese indie, ma non Lo Stato Sociale o i Pop X.

Il caso italiano è ancora più assurdo a causa dell’esistenza del concetto di itpop. L’ambiguità della parola indie appioppata a chiunque fosse a metà tra il suonare in locali da duecento coperti e negli stadi, insieme all’ostinazione a non riconoscere come cantanti di successo quelli che non venivano passati in radio, ha fatto sì che si creasse l’ennesima etichetta inutile. Parliamo del fenomeno creatosi nella scorsa decade attorno a un circuito di artisti con un pubblico piuttosto folto e omogeneo che aveva reso gruppi e performer come I Cani, Cosmo o i Pop X degni di essere considerati pop ma relegati all’indie perché snobbati dal circuito mainstream, anche se si trovavano sotto l’ala di questa o quella grande casa di produzione. Il termine ha perso di senso grazie alla scelta di Amadeus, che ha ammesso alcuni di loro a Sanremo, inserendo nella kermesse canora tra i big artisti come Colapesce e Dimartino, La Rappresentante di Lista o Tananai, legittimando gli artisti della scena e diluendo quest’ultima nel mainstream.

La musica in declino

Questo distaccamento tra il circuito mainstream e scene non esattamente indie o di nicchia è sintomo di un più generale fenomeno che viene spesso percepito dagli appassionati di musica: lo scollamento tra ciò che viene spinto dall’industria musicale e quello che gli ascoltatori vogliono davvero. I numeri degli streaming e le vendite dei biglietti dei grandi artisti contraddicono questa visione; tuttavia, è innegabile che le major (le case discografiche di punta) tendano a spingere a colpi di marketing quegli artisti che massimizzano i profitti e abbassano i costi di produzione. Facile fare successo se ogni estate si ha un tormentone passato a forza in ogni pubblicità, radio e supermercato!

Che la musica contemporanea sia peggiore di quella del passato è una lamentela che si sente in ogni epoca, ma negli ultimi quindici anni questa critica si sta facendo sempre più insistente e supportata da alcuni dati. Sia i testi che le strutture musicali stanno diventando più semplici e ripetitivi e le canzoni più brevi, con meno introduzioni, bridge e altre strutture molto comuni fino a non troppi anni fa. Le cause di questi cambiamenti sono molte, da quelle tecnologiche a quelle economiche, fino alle semplici preferenze del pubblico (pur sempre manipolabili). Il critico musicale Rick Beato si è esposto a riguardo, imputando il peggioramento della musica in cima alle classifiche a un misto di facilità di produzione e facilità di fruizione, che avrebbero portato a una perdita di valore e facilitato un ascolto disattento. Le sue opinioni sono state molto discusse, ma sono il segno di un discorso che non può più essere ignorato.

Non si possono neanche ignorare altri cambiamenti in positivo. Dopo una ventina d’anni di presenza nelle classifiche di artisti sempre più variegati a livello musicale, è il pop che adesso sta assorbendo la tendenza a mischiare i generi, riportandoci alla domanda iniziale. La dozzinalità della musica mainstream e la tendenza a travalicare le categorie sembrano coesistere, non solo in casi esotici come il K-pop. Sembrerebbe che negli ultimi anni il pop abbia recepito e fatto proprie alcune critiche del genere hyperpop, nato con l’idea di fare del pop più sperimentale e che non fosse semplice un guilty pleasure fino a estremizzarsi in un genere tutto proprio e inadatto al grande pubblico. Altri, come il canale YouTube Inside the Score, propongono una prospettiva più neutra, secondo cui a fare delle grandi hit non sono più i canoni classici di melodie e armonie, ma altre componenti come la cura del sound design, oggi senza precedenti. Più in generale, i bassi costi di produzione e la democratizzazione del mondo musicale stanno scardinando i canoni che si erano affermati nel corso dello scorso secolo.

Il cambiamento non è stato repentino ma è parte di un processo ampio e graduale: già dagli inizi degli anni Duemila è apparsa una più ampia varietà di generi musicali in cima alle classifiche, senza avere annate dominate da questa e quella sonorità. Gli emulatori ci sono sempre stati, ma qui parliamo dei lavori di maggior successo, che definiscono lo Zeitgeist di un periodo. È anche vero che non solo i classici sono finiti in cima alle classifiche: dall’avvento di internet in poi, il modo di fruire e concepire la musica è cambiato radicalmente. L’album come unità logica di produzione artistica è stato sostituito, almeno in parte, dal singolo che meglio si integra con le playlist, vere protagoniste.

A questo si uniscono fenomeni antropologici, sociologici e di marketing in un sistema di conseguenze intrigato: la facile fruizione della musica ha portato alla nascita delle comunità online, togliendo l’esigenza di doversi limitare alle proposte di un negozio di dischi, una sottocultura o semplicemente al passaparola. Si creano quindi fenomeni globali sempre più di massa e in numero più esiguo, con una quantità enorme di micro-sottoculture con annesse estetiche che finiscono spesso per incontrarsi e mescolarsi negli spazi virtuali. In quelli fisici rimangono principalmente i concerti, che con la crisi generata da Napster e la cascata delle sue conseguenze sono diventati la prima fonte di sostentamento economica per gli artisti.

Mentre in molti luoghi il mercato ha creato un equilibrio dove proposte meno industriali ma comunque dal successo commerciale riescono a nascere dal basso, in Italia il discorso cambia. Sembrerebbe che in Italia dominino solo gli artisti iperprodotti dalle major o gli eredi dell’itpop, spesso però criticati per essersi conformati alle logiche di mercato e aver perso quella fervenza creativa che aveva caratterizzato la scena alle sue origini. In sostanza, per sfuggire alla musica di plastica bisogna rivolgersi al mercato internazionale o rinchiudersi nelle nicchie, capaci di sfornare un’enorme quantità di grande musica di genere e grande pop che però non raggiungono un ampio pubblico. Se il mercato anglofono ha numeri sufficienti a premiare anche progetti meno conformisti, questo aspetto sembra del tutto assente nei mercati nazionali.

La musica non si riduce né al mainstream né ai magheggi di questa o quella piattaforma di streaming; nonostante il mercato si stia frammentando in scene sempre più interconnesse, ragionare per generi ha ancora senso. Serve a navigare gli spazi online di discussione, a girare nei negozi di dischi, o solo ad aprire una chiacchierata da bar e tirare giù due riflessioni.

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