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Palestina, la resistenza fatta (anche) a parole

Nel 1973 Umberto Fiori scrive Palestina, cantata dagli Stormy Six, contro l’occupazione israeliana e il concetto di imperialismo. Nel 2023 le piazze si riempiono a supporto della Palestina e riecheggiano gli stessi slogan di 50 anni prima. La lotta per la libertà, per la giustizia, non si ferma, ma sappiamo davvero cosa c’è dietro gli inni che cantiamo?

È il 1973 e Umberto Fiori è parte della commissione artistica del Movimento studentesco nato nel 1968 tra le mura dell’università Statale di Milano. È l’anno della guerra del Ramadan e Fiori scrive il testo di Palestina, destinata a diventare un inno contro l’occupazione israeliana. Sono gli Stormy Six a cantarla e consegnarla, senza saperlo, alla storia.

È il 2023 e si torna a scendere in piazza per la Palestina. Non che si sia mai davvero smesso, in realtà. È l’anno di quella che è stata nominata, in maniera opinabile, guerra di Gaza e la gente ripropone parole che canta da una vita: «من المية للمية », «from the river to the sea [Palestine will be free]», «dal fiume al mare [la Palestina sarà libera]», uno slogan utilizzato dai sionisti per indicare l’area d’interesse della Grande Israele ma di cui la popolazione palestinese si è riappropriata, per esempio; ma anche «non fan paura i carri armati d’Israele: la tua terra tu la devi liberare». Le stesse parole del 1973 per lo stesso dramma che non ha mai smesso di ripetersi.

Il 1973 e il 2023 sono, però, anni diversi con contesti politici diversi. Definizioni come «tiranno giordano traditore», parte integrante di Palestina, vengono cantate con cognizione di causa o le masse hanno perso di vista il contesto a favore della potenza dell’inno?

Palestina comincia con «Laggiù nel Medioriente, come un bufalo ferito, infuria il pirata americano», riferimento critico alla presenza degli Stati Uniti in Medio Oriente. La stessa strofa parla non solo di uomini adulti ma di donne e bambini, aspetto che guadagna ulteriore rilevanza se ricordiamo che prima del 7 ottobre 2023, giorno dell’attacco di Ḥamās contro alcuni insediamenti israeliani, il 47 per cento degli abitanti di Gaza era composto da minorenni, che resistono all’occupazione e a cui «non fan paura i carri armati d’Israele». Israele che dal 1973, lo scrive Samir Kassir ne L’infelicità araba, edito in francese nel 2004, «regna indisturbato sul Medio Oriente» e «può fare letteralmente quel che vuole, quel che gli ispirano i sogni di potenza dei suoi dirigenti».

Il ritornello comincia con «abbiamo alzato il rosso, il verde, il bianco e il nero, stretto in pugno la bandiera: i colori di al-Fatah», riferimento alla bandiera palestinese e all’organizzazione politica e paramilitare di al-Fatḥ, fondata tra il 1959 e il 1965 e parte integrante dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina.

«Abbiamo alzato la bandiera partigiana della rossa Palestina accanto a quella del Vietnam!»: la chiusura del ritornello si riferisce alla guerra del Vietnam nota, nella storiografia vietnamita, come resistenza contro l’oppressione statunitense. Questo riferimento, insieme a quello dei partigiani, viene ripreso nella seconda e nella terza strofa e l’obiettivo comune di liberazione di lotte diverse si può interpretare come filo rosso di tutta Palestina. È a causa di questa seconda parte del ritornello che spesso la canzone viene identificata con il titolo di Rossa Palestina.

«Li chiamano “banditi” i giornali dei padroni che chiamavano “assassini” i partigiani»: la seconda strofa colpisce i media piegati al volere dei poteri dominanti che, proprio come succedeva durante la Seconda guerra mondiale con i partigiani, dipingono chi combatte per la libertà come criminale. Oggi, come terrorista. «Trovo che soprattutto nella narrazione occidentale ci sia una perdita di onestà intellettuale, che si manifesta in controllo e “sanificazione” dei fatti e della loro valenza. È una manipolazione della conoscenza […] è un elemento strutturale dei processi di dominio», scrive nel 2023 Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni unite sui territori palestinesi occupati, in J’accuse. Gli attacchi del 7 ottobre, Hamas, il terrorismo, Israele, l’apartheid in Palestina e la guerra. Ma la strofa non si ferma qui: critica anche i «bollettini israeliani», fonti ritenute ufficiali e spesso le uniche a essere legittime quando si parla di conflitto israelo-palestinese; attacca il «tiranno giordano traditore», Ḥusayn bin Ṭalāl, re di Giordania nel periodo di stesura di Palestina. Stando a una dichiarazione di Benjamin Netanyahu, contenuta nel libro del 1993 A Durable Peace, Ḥusayn bin Ṭalāl avrebbe avvertito, in cambio di protezione per la sua Giordania, Israele dell’attacco congiunto di Egitto e Siria che ha dato inizio alla guerra del Ramadan.

La terza strofa rassicura e insieme colpisce: «Al di là di questo mare c’è un popolo fratello: ogni lotta aiuta un’altra lotta», un riferimento ulteriore ai vecchi partigiani e a chi resisteva in Vietnam, una solidarietà tra ultimi; al tempo stesso, «ogni colpo sparato sul nemico sionista in Italia colpisce chi comanda», un modo per strizzare l’occhio al supporto costante e senza ombra di dubbio a Israele, dovuto forse al senso di colpa per azioni passate, dell’Italia e di buona parte dell’Occidente.

Il testo di Palestina rimane un potente e attuale inno di resistenza e testimonia la triste continuità della lotta palestinese per il diritto alla vita sancito nell’articolo 3 della Dichiarazione universale dei diritti umani, che recita: «Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona». «Più che altrove, è in Palestina che la hogra si è dispiegata con maggiore ferocia, moltiplicando le umiliazioni con l’obiettivo di annientare un intero popolo», dice Fatima Ouassak nel suo libro del 2023 Per un’ecologia pirata. «Ma è sempre in Palestina che la lotta contro l’umiliazione e per la liberazione si è dimostrata più intensa», tanto da diventare inaccettabile, tanto da dover essere soppressa una volta per tutte con un assedio che va avanti da mesi.

«Se vogliamo […] capire quello che sta succedendo dobbiamo affrontare quell’orrore [quanto accaduto il 7 ottobre 2023, ndr] nel contesto di ciò che lo ha preceduto. Sto parlando della storia di un’occupazione illegale che va avanti da oltre mezzo secolo, dopo altri decenni di abusi inflitti al popolo palestinese», scrive sempre Albanese, fornendo una chiave di lettura non solo di Palestina come inno, ma anche del nostro tempo. Se buona parte del testo steso nel 1973 può ancora oggi essere adatta, infatti, è importante non fermarsi alla forza trainante degli slogan ma sottolineare gli anacronismi, informarsi su dinamiche apparentemente lontane nel tempo e, soprattutto, mantenere viva la memoria delle lotte passate perché siano d’ispirazione alle future.

Per saperne di più: la hogra

Citando Fatima Ouassak, la hogra è «la volontà istituzionale di terrorizzare e umiliare gli individui […] l’espressione di un odio apparentemente gratuito, la violazione di ciò che costituisce la dignità di una persona», con la funzione di «richiamare l’individuo all’ordine socio-razziale». Il termine è stato politicizzato nel suo significato per la prima volta in Algeria, durante l’ottobre nero del 1988, ed è poi tornato in uso nel 2011 con la primavera araba a partire dalla Tunisia.

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