La transizione energetica è l’imperativo del ventunesimo secolo. Si naviga a vista verso un orizzonte di pochi decenni, scandito dai rintocchi di ogni evento estremo causato dal cambiamento climatico. Questo, intanto, miete danni, cancellando i connotati millenari della Terra. La transizione energetica, però, è il cuore di una matriosca di conflitti. Quello tra il clima e le attività antropiche, tra le rigenerazione delle risorse naturali e lo sfruttamento delle fonti fossili, tra le scelte di consumo responsabile e il capitalismo.
In questo campo minato si inserisce la corsa all’approvvigionamento delle materie prime. Anche in vista del precario quadro politico-internazionale attuale, questa impone a ogni blocco del Pianeta di accaparrarsi per primo le briciole che restano, da depredare in nome del mito dell’indipendenza energetica. In Europa, il piano è condurre una doppia transizione, che dovrebbe essere complementare: decarbonizzare il sistema energetico assicurandosi al contempo l’autonomia tramite l’accesso e la trasformazione delle materie prime critiche.
In questa direzione, il 15 novembre il Consiglio e il Parlamento europeo hanno concordato un regolamento – ancora provvisorio – che prevede la riduzione delle emissioni di gas metano attraverso nuovi obblighi per il settore del carbone e dell’oil and gas, misure di rilevamento delle fuoriuscite e strumenti di monitoraggio delle importazioni nell’Ue. L’accordo rappresenta il fiore all’occhiello del pacchetto legislativo Fit for 55 (Pronti per il 55 per cento), che aspira al taglio delle emissioni climalteranti entro il 2030, in prospettiva della neutralità climatica attesa per il 2050.
La corsa dell’Unione europea per l’approvvigionamento di materie prime
Eppure, osserva Giovanni Grieco, professore associato dell’Università degli Studi di Milano nel dipartimento di Georisorse e Applicazioni Mineralogiche, «quando si parla di emissioni inquinanti non ha fondamento scientifico suddividere le fonti di energia in “buone” e “cattive”; non ci sono verità assolute ed è fuorviante promuovere l’espressione “a impatto zero” in virtù del fatto che siano fonti da energia rinnovabile. Un esempio calzante è l’energia eolica. Le pale eoliche producono energia “pulita” sfruttando il vento (per semplificare, ndr) ma, secondo le stime in letteratura, il bilancio tra la CO2 in meno emessa producendo energia eolica è in rapporto di circa 80 a 100 con l’energia che serve per realizzare il giacimento stesso, non certo zero o poco più».
Il contraltare del piano Ue per restare entro il 55 per cento sono le materie prime critiche, di cui il territorio europeo è perlopiù sprovvisto. Per questo, Consiglio e Parlamento Ue hanno approvato il 13 novembre un accordo politico – provvisorio fino all’adozione formale – che disciplini il Regolamento su queste risorse (Critical Raw Materials Act) e il loro approvvigionamento «sicuro e sostenibile», come aveva annunciato la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen quando il 16 marzo è stata presentata la proposta di regolamento che aggiornava a 34 la lista delle materie prime critiche. In quell’occasione è stato circoscritto un sottoinsieme di 16 materie strategiche, cruciali per l’economia perché «fondamentali per le tecnologie più rilevanti ai fini delle ambizioni verdi e digitali dell’Europa e per le applicazioni nel settore della difesa e dello spazio», tuonava la Commissione.
Auto elettriche, verso l’infinito e oltre: il costo della sostenibilità apparente
Dal punto di vista comunicativo (ma anche sociologico) l’auto elettrica è diventata l’emblema della transizione energetica come unità di misura del grado di sostenibilità di ogni società. In realtà, è probabile che chiunque sia d’accordo con questa tendenza non abbia cognizione del “retroterra”: un’auto elettrica richiede in media 41 chili di nichel nelle batterie, 12 di manganese e 9 di cobalto (o di litio, più disponibile ed economico) nei catodi.
Guardando al prossimo futuro, spiega Grieco, «le stime dicono che nel 2040 ci saranno almeno 600 milioni di auto elettriche, che quindi richiedono 6 miliardi di chili di litio da reperire, materiale che per di più non è riciclabile». E ancora: «Contrariamente al percepito comune, si riesce ad estrarre molto poco dalle auto e dai dispositivi elettronici; perlopiù solo oro e argento (intorno al 10 per cento). Dunque, partendo dal presupposto che ci sono in circolazione un miliardo di auto, ma nel 2040 si prevede di arrivare a due miliardi, lo scarto con quelle alimentate a combustibili fossili è di 1,4 miliardi. Una quantità maggiore del numero complessivo attuale, il che rende impossibile rinunciare ai pozzi di petrolio».
Sulla base dell’aumento esponenziale della domanda di materie prime serpeggia in molti il dubbio che ci sia un conflitto ulteriore – taciuto ma ingombrante – tra l’urgenza dichiarata di una transizione verde (che fa il paio con l’indipendenza energetica) e la sostenibilità degli impatti che le attività di tutto il life cycle di un prodotto riversano in atmosfera (e non solo) a danno dell’ambiente. L’ultimo accordo raggiunto conferma gli obiettivi individuati otto mesi fa, ma include tra le materie prime critiche strategiche anche l’alluminio, oltre a codificare i parametri di riferimento per riciclare e per autorizzare i progetti strategici a seguito di specifica valutazione dei rischi sulla catena di approvvigionamento.
La domanda incontrollata di materie prime critiche e l’effetto rebound sulle emissioni climalteranti
Quali sono gli obiettivi per compiere la transizione energetica? Assicurare il fabbisogno annuale dell’Ue per il dieci per cento con l’estrazione, per il quaranta per cento con la lavorazione (e raffinazione) e per il quindici per cento con il riciclaggio. Tuttavia, si tratta di previsioni assolutamente irrealistiche secondo Grieco, che per quanto riguarda le attese sull’estrazione ritiene che «saremmo già fortunati ad arrivare al 2-3 per cento, per allora». Un caso esemplificativo sono le pale eoliche: «Per rispettare gli obiettivi che Ue si sta dando sulla circolarità, tra vent’anni dovrebbero rappresentare circa 200 milioni di impianti. Il problema, però, è che ogni generatore eolico richiede più di mezza tonnellata di terre rare (neodimio, in particolare). Ne servirebbero 100 milioni di tonnellate per soddisfare quel fabbisogno».
Infine, per scongiurare la dipendenza da un unico Paese terzo – una condizione che il blocco europeo sta già scontando con il gas russo dallo scoppio del conflitto in Ucraina – si vogliono diversificare le importazioni di materie prime critiche in modo da non essere soggetti per più del 65 per cento del fabbisogno complessivo ai rapporti con un unico stakeholder.
Peraltro, questa misura mira a rompere anche il rapporto di subalternità verso la Cina, che detiene il predominio assoluto di forniture globali. Non a caso, la Global Gateway è stata la risposta dei 27 alla Via della Seta cinese, per supportare progetti minerari in Paesi terzi attraverso partenariati con i mercati e le economie in via di sviluppo.
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L’insostenibile pesantezza della dipendenza energetica
Si tratta di una strategia tanto ambiziosa quanto distante dalla situazione attuale, basata sulla dipendenza dell’Ue al 98 per cento dalla Cina per le terre rare (magneti permanenti, batterie e turbine eoliche); al 98 per cento dalla Turchia per il boro (tecnologie eoliche); al 78 per cento dal Cile per il litio (batterie elettriche); al 71 per cento dal Sudafrica per i metalli nobili come il gruppo del platino (elettrolisi dell’idrogeno); al 63 per cento dalla Repubblica Democratica del Congo per il cobalto (batterie e combustibili sintetici).
A un occhio attento le ricadute sulla salute del Pianeta non sono irrilevanti, soprattutto per i luoghi più prolifici di materie prime. Gli impatti, spiega Grieco, sono variegati, ma non equivalenti: «Prendiamo l’industria mineraria, non incide tanto sull’atmosfera, ma moltissimo su terra e acqua; specie in aree del mondo dove i protocolli non sono rigidi. Nelle Filippine, dove il nichel si estrae dal suolo, il “costo ambientale” dell’estrazione è l’abbattimento della foresta pluviale per lavorare sul terreno».
E lì cosa resta? È legittimo chiedersi. «Il deserto» sentenzia l’esperto. «Lo sfruttamento idrico è ancor più evidente: per estrarre è necessario avere enormi corsi d’acqua nelle vicinanze delle miniere, per cui anche i siti fertili si escludono se sono in alta quota (è il caso di alcuni siti di cobalto esistenti nel torinese, a oltre 3000 metri sul livello del mare) perché mancano di adeguata disponibilità idrica. Il litio stesso si estrae sott’acqua e l’impatto di questa operazione non è indifferente».
L’Italia in lotta per l’emancipazione dalle importazioni
L’Italia, dal canto suo, non solo replica, ma amplifica lo scenario di dipendenza energetica, essendo al primo posto tra i Paesi che dipendono dalle importazioni extra-Ue, il nodo cruciale che allontana la transizione energetica. Il primo studio che quantifica questa dipendenza industriale, condotto dal think-tank European House-Ambrosetti su commissione di Erion, ha mostrato come sulla base di questo rapporto unilaterale (dunque sbilanciato) si regga oltre un terzo (trentotto per cento) del Pil italiano; una cifra pari a 686 miliardi di euro, che ha registrato una crescita del 22 per cento dal 2022 (564 miliardi).
Un segno eloquente di quanto il mantenimento di questo status quo sia prioritario si ritrova nella richiesta dell’Ue di (ri)aprire quanto prima le miniere, in netta controtendenza con l’ondata di “remore ambientaliste” che portarono alle chiusure di massa dagli anni Ottanta. I rischi connessi alle attività minerarie, precisa Grieco, «in senso assoluto sono enormi. Se è vero che scavare non impatta perché richiede esplosivo invece che ruspe, il punto è il rapporto tra quantità di materia prima e dispendio di processi». Questo perché «per ricavare un’infinitesima porzione di roccia “preziosa” da utilizzare per le energie rinnovabili bisogna estrarre anche fino a decine di milioni di tonnellate di roccia.
Giustizia climatica, questa sconosciuta: un effetto collaterale
Per esempio, per tirare fuori un grammo d’oro devi scavare una tonnellata di roccia, che poi va caricata, trasportata e frantumata. Dopo la macinazione, vanno separati i granelli dalla “sabbietta” che non serve: per farlo si usa l’acido cianidrico che, come altre sostanze chimiche usate per lo stesso scopo, è molto inquinante. Tutto ciò che resta di scarto [la quasi totalità, ndr] va smaltito in discarica, e in alcuni casi è esso stesso un materiale inquinante». Ognuno dei passaggi necessari comporta ingenti quantità di energia (oltre che tempo e soldi) e, di conseguenza, emissioni di CO2; appare dunque sempre più legittimo intravedere il rischio che il passaggio a un modello di sviluppo e di consumo circolare sia solo uno specchietto per le allodole in cui i grandi assenti restano proprio il clima e, sul piano socio-politico, la giustizia climatica.
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Nonostante la complessità della questione, non vuol dire che non esistano soluzioni alla nostra portata, o quantomeno, alternative, posto che nessuna di queste da sola è risolutiva. «Le valutazioni suggeriscono che le energie migliori in ottica costi-benefici (economici e ambientali) sono l’eolico e il solare. Ma per la transizione energetica non esiste il proiettile d’argento», avverte il professore. «Il mercato capitalista induce le persone a pensare che, purché riciclabile, una scelta di consumo non abbia impatto. Bisogna considerare che è più ecologico utilizzare 100 volte una bottiglietta d’acqua e gettarla via nell’indifferenziato che riempire lo stesso imballaggio poche volte per poi conferirlo al corretto smaltimento. Per questo ogni strategia può fare da palliativo, ma la svolta vera si gioca sulla riduzione dei consumi; per converso, questo principio cozza con il ‘turbocapitalismo’, sul piano del modello economico che perseguiamo dalla rivoluzione industriale. Basti pensare al principio dell’obsolescenza programmata».