«Vai dove ti portano i fatti, non dove ti porta la mente. In America, anche il giornalista che in pausa caffè ti dice “quello che ha detto Trump, quello che ha detto Biden, è inaccettabile”, quando si siede a scrivere, filtra il suo pensiero e lo annulla. Altrimenti ci sarà un editor che gli dirà: “Aggiusta. Si vede come la pensi”. L’ho notato nel giornalismo americano più che in quello italiano».
A New York è ora di pranzo e ha appena terminato una riunione di lavoro quando risponde al telefono. Davide Mamone è un giornalista di origini palermitane. Cresciuto a Milano, ora fa il reporter per FundFire, una testata del Financial Times. Ha scritto sia per giornali italiani che americani e oggi si ritrova a commentare l’elezione più imprevedibile di sempre, anche più di quella del 2020. «Mai un partito ha tradito il proprio candidato a luglio chiedendogli di fare un passo indietro. Mai un partito ha permesso a un condannato di ripresentarsi e proporre un’agenda basata sul rispetto delle regole», riflette. «I valori economici saranno decisivi. Se la Federal Reserve taglia i tassi di interesse sui mutui a metà settembre darà un aiuto, secondo me, a Kamala Harris. Se il numero di disoccupati dovesse crescere fino al 5 per cento (adesso sono al 4,3), ciò aiuterà Donald Trump».
Finale a sorpresa dunque per l’evento mediatico più spettacolare d’America. La campagna elettorale negli Stati Uniti è un intrattenimento lungo diciotto mesi. I costi per coprirne le spese possono essere un contraccolpo sul budget dei giornali, ma è anche vero che l’anno elettorale offre loro molte possibilità di fare soldi, soprattutto ai locali, che diventano punto di riferimento per le testate nazionali per capire i temi su cui si baserà la campagna.
Ma l’opportunità va colta schivando l’ostacolo più grande: si vede come la pensi. Kamala Harris e Donald J. Trump si sfidano nell’era della post-verità, dove le opinioni si chiamano teorie, idee o fatti. Le parole vogliono fare effetto, più che essere accurate. Molti giornalisti sfornano notizie riciclate, riprese da agenzie di stampa e riassemblate. Si susseguono aggiornamenti con una sostanza al pari del fumo in un mondo in cui si cerca in tutti i modi di attirare l’attenzione del pubblico gridando «al fuoco!». È un fenomeno globale. Il giornalismo americano gli sta resistendo? E lo fa meglio di quello italiano?
Mamone è arrivato alla conclusione che sono anche lo spazio e la separazione fisica dell’ambiente di lavoro a fare la differenza. Oltreoceano, almeno nelle grandi testate, i desk sono posizionati all’interno delle redazioni in modo da separare l’ala news dall’ala opinion. Nella prima le opinioni non possono entrare. Poi è vero che il filtro personale non si può mai eliminare del tutto, «ma c’è una catena di montaggio all’interno della redazione che vuole cancellare il bias il più possibile nel prodotto finale».
In Italia questa separazione netta tra notizia e commento non c’è. Soprattutto l’approccio alla politica nel giornalismo italiano, spesso anche per questioni finanziarie – per poter di fatto continuare a esistere in quanto progetto editoriale – è filtrato da un alto tasso di partigianeria.
E non è che in America i media siano tutti affidabili o non circolino fake news, ma «il giornalismo americano resiste», conferma Mamone, perché «il processo di produzione di un articolo è estremamente serio e verificato in ogni passaggio in modo quasi maniacale». È favorito lo scambio delle idee: nell’ala dell’opinion desk spesso le testate dei giornali liberal accolgono editor conservatori o di idee lontane da quello che è il lettore medio della testata. Oppure, quando i giornali dichiarano l’endorsement, all’improvviso smettono di essere fonti affidabili? No, semplicemente l’endorsement arriva dall’editorial board, lo staff che produce opinioni, e dà una prospettiva di lungo termine su quello che le candidature e una data presidenza possono rappresentare per il Paese. Ma nulla di rigido. Lo stesso New York Times ha appoggiato Joe Biden eppure, in un editoriale molto duro, gli ha chiesto di fare il passo indietro.
Come spiegare questo alto tasso di professionalizzazione nel giornalismo americano? Gli studiosi di comunicazione Daniel C. Hallin e Paolo Mancini (Modelli di giornalismo. Mass media e politica nelle democrazie occidentali, 2004, Editori Laterza) ci hanno visto la conseguenza di un contesto politico poco radicalizzato, un intervento dello Stato poco pervasivo e un alto livello di circolazione dei giornali, favorito dallo sviluppo della stampa dal basso e dei tabloid. Al contrario, il giornalismo italiano si è sviluppato storicamente attraverso un ruolo ingombrante dello Stato, tra sussidi economici e periodi di censura, un conseguente alto parallelismo politico e l’affermazione di una stampa d’élite ignorata dalla gran parte del Paese analfabeta.
Secondo Davide Mamone, è anche il modo in cui i giornali rispondono al futuro a valutarne la qualità. I giornali americani si sono adattati molto meglio di quanto abbiamo fatto noi all’environment dei social media. Molte testate italiane hanno preferito inseguire il click baiting piuttosto che la deontologia, la quantità delle condivisioni al posto della qualità dei contenuti. «È un errore drammatico che costa caro alle nostre redazioni perché punta tutto sul contenuto scarso per ottenere visite, che però non portano a nulla sul lungo termine. Nel giornalismo americano questo non succede come succede da noi. Sarebbe impensabile vedere la sezione video del Wall Street Journal, del New York Times, del Washington Post, mettere contenuti clickbait come vediamo sui nostri giornali».
Un esempio di come usare i social per fare informazione, suggerisce Mamone, è il team TikTok del Washington Post guidato da Dave Jorgenson. Dal 2019 si occupa di generare contenuti di qualità, verificati, su un’app dove regna la disinformazione. «I giornali mainstream si devono adattare al linguaggio dei social media portando in essi il proprio valore. Devono evolvere il loro linguaggio, ma mantenere il loro cuore, la loro qualità e professionalità». Altrimenti, la cosa da fare è una sola: «Aggiusta».