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Ri-abitare Casal di Principe

Il 19 marzo 1994 la camorra uccide don Peppe Diana nel comune in provincia di Caserta. Sono passati trent’anni e la città è cambiata profondamente. Grazie anche al riutilizzo sociale dei beni confiscati, i casalesi hanno trovato un nuovo modo per abitare la loro casa

Il portico in stile greco-romano di Casa don Diana si inserisce perfettamente nel panorama della periferia di Casal di Principe: le ville, una più sontuosa dell’altra, si susseguono a perdita d’occhio, senza armonia. L’edificio è subito riconoscibile anche dall’esterno: sull’alto muro di cinta, immacolato, la scritta Casa don Diana è accompagnata dal simbolo colorato che i casalesi ormai conoscono bene. Il comitato nato in seguito alla morte di don Peppe Diana, prete di Casal di Principe ucciso dalla camorra il 19 marzo 1994, occupa questo bene confiscato dal 2015. Nel corso degli anni è diventato il simbolo della resistenza dei casalesi contro lo strapotere della criminalità organizzata sul territorio. Nel bene e nel male, per tutti loro c’è stato un prima e un dopo don Peppe Diana.

«Questo era un luogo di morte», spiega con enfasi Salvatore Cuoci, presidente del comitato. Da questo edificio, appartenente al boss Egidio Coppola, affiliato della famiglia Bidognetti, veniva deciso a chi chiedere il pizzo, chi intimidire, chi uccidere. «Oggi, questa casa rappresenta la vita».

Anche qui, come negli altri luoghi confiscati che abbiamo visitato, le associazioni parlano con reticenza delle persone alle quali questi beni sono stati sottratti. «Meritano l’oblio», sentenzia Cuoci. Renato Natale, sindaco antimafia di Casal di Principe, lo ribadisce: «Dobbiamo provare a dimenticare questi nomi».

In trent’anni, persino la topografia di Casal di Principe è cambiata: strade, piazze e parchi portano i nomi delle vittime. L’appartenenza ai posti che abitiamo passa anche da chi o da cosa scegliamo di ricordare.

Siamo nel comune campano per capire in che modo i casalesi si sono riappropriati della loro città. Con noi, l’associazione francese Crim’Halt, che studia da vicino la legislazione antimafia italiana per provare ad adattarla in Francia.

Abitare è costruire una memoria

Basta attraversare la soglia di Casa don Diana per rendersi conto di cosa il comitato abbia scelto di ricordare. Nella prima stanza, le foto delle vittime innocenti della camorra ricoprono una parete intera. Alcuni nomi sono noti, come quello di Giancarlo Siani, giornalista ucciso nel 1985 e iscritto all’Albo dopo la sua morte. Altri sono meno conosciuti, persone comuni. A tutti è dato lo stesso spazio, ogni storia è importante. «Abbiamo aggiunto un altro muro al piano di sopra, ma la parete non basta per accoglierli tutti, le vittime della camorra in Campania sono più di 350», commenta Francesco, membro del comitato.

Più avanti, un ampio spazio ospita la mostra fotografica di Augusto Di Meo, amico di don Peppe Diana e testimone oculare del suo omicidio. «Quel giorno di trent’anni fa», racconta Di Meo, «per me è cominciato l’inferno». Appoggiato alla balaustra del primo piano di Casa don Diana, con alle spalle i ritratti delle vittime innocenti, guarda dritti negli occhi gli astanti e non risparmia i dettagli più cruenti dell’uccisione: i quattro colpi al viso del prete, il foro di proiettile notato solo giorni dopo sul proprio cappotto, la cadenza lenta del killer che impunito attraversa la navata della chiesa con calma e a testa alta. Di Meo, nelle ore che seguono l’omicidio, decide di denunciare l’accaduto, a differenza delle altre persone presenti. Ancora oggi, a causa di questa scelta, si imbatte nel dissenso, nelle intimidazioni e nell’omertà di chi non ha mai compreso. «Eppure, ne è valsa la pena», conclude. «Quel 19 marzo 1994, per questo luogo e forse per l’Italia intera, è cambiato tutto».

Abitare è lottare

Dal 1996, la legge 109 impone il riutilizzo sociale dei beni confiscati alla criminalità organizzata. Solo in Campania, secondo i dati raccolti dall’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (Anbsc), nel 2022 i beni immobili confiscati o sequestrati sono più di tremila. Associazioni di diverso genere ne gestiscono i due terzi. È un modello che funziona dal punto di vista dell’economia sociale, della lotta alla criminalità organizzata e della riappropriazione, da parte dei cittadini, dei luoghi acquisiti o costruiti illecitamente dalla mafia.

Eppure, nei primi anni in cui questo dispositivo venne messo in atto, nessuno voleva farsi carico di gestire beni appartenuti a famiglie criminali fin troppo vicine alla propria quotidianità.

«Noi invece, che siamo un po’ pazzi, ci siamo fatti avanti subito», ironizza Pasquale Corvino, presidente della cooperativa Agropoli e del ristorante Nco (Nuova cucina organizzata), che ospita e impiega persone adulte in condizione di disagio psichico. «La nostra associazione», spiega Corvino, «non si occupa solo di supportare queste persone, ma lo fa sui beni confiscati alla criminalità organizzata. Abbiamo sviluppato un modello di economia sociale che ha poi ispirato tante altre realtà».

Oggi, nel menù, antipasti di formaggi e salumi, pasta alla norma, una millefoglie alla crema e ai frutti rossi. La cooperativa Agropoli coltiva e produce tutto, dalla pasta al vino e tutto ha il sapore dell’antimafia.

Sui gradini del portico della villa che ospita la Nco incontriamo anche Angela Lepore, presidente dell’Associazione italiana X fragile. Anche lei è d’accordo con le parole di Corvino. «Questo luogo è doppiamente risorsa: valorizza un territorio e offre la possibilità di essere risorsa a persone che non ce l’hanno», spiega. «Offre la consapevolezza che si può agire in maniera diversa rispetto a chi questo territorio lo violenta. Qui, le storie che parlano di violenza e sfruttamento sono tante. Ma le altre storie esistono. E questo è un esempio palese, concreto, di come si può cambiare il posto in cui si vive per renderlo migliore».

Abitare è trovare un senso

Le associazioni gestiscono molti dei luoghi confiscati alla criminalità organizzata a Casal di Principe. In pieno centro, in due delle case del clan Schiavone, l’associazione La forza del silenzio accoglie giovani autistici e le loro famiglie e offre loro un lavoro in una panetteria senza glutine. Nella villa “di Scarface” oggi è nato un centro diurno di salute mentale. In altri edifici confiscati sorgono asili nido e centri di accoglienza per le donne vittime di violenza. Ma non solo. Uno degli esempi più riusciti di riutilizzo è l’attribuzione di un bene confiscato al commissariato della polizia di Casal di Principe.

Michele Pota, vicequestore aggiunto, osserva come «il tessuto sociale di Casal di Principe sia cambiato. La presenza delle Forze dell’ordine è più importante, ma è cambiata soprattutto la mentalità: il livello di omertà si è abbassato. Le persone denunciano più facilmente».

Il sistema del riutilizzo sociale degli immobili confiscati è uno dei motori principali di questo cambiamento. Ha senz’altro un valore economico: i beni vengono sottratti alla criminalità organizzata per colpirne il patrimonio. Ma è anche la misura che permette alla popolazione di attraversare la soglia dei beni immobili e trasformarli in qualcos’altro. A poco a poco, questa riconquista degli spazi assume altre dimensioni e finisce per coinvolgere l’intera comunità. Mauro Baldascino, cofondatore del comitato don Peppe Diana, insiste sul concetto di economia sociale, intrinseco a questa misura: «L’economia sociale è un modo diverso di fare economia dove il profitto non è l’obiettivo principale, ma si persegue qualcosa di più ampio. Unisce al profitto anche obiettivi sociali».

Abitare è condividere

La mattina del 19 marzo, la sveglia suona molto presto. La giornata, in occasione del trentennale della morte di don Peppe Diana, è densa di eventi e l’associazione francese Crim’Halt è stata invitata a partecipare a partire dalla messa delle sette del mattino, quella che il prete assassinato non poté celebrare nella sua chiesa. Tra i francesi presenti a Casal di Principe ci sono anche alcuni familiari di vittime del crimine: sorelle, madri, zie di giovani uccisi a Marsiglia e in Corsica. Vogliono capire qualcosa di più sullo statuto di vittima presente nella legislazione italiana e assente oltralpe. Sono stupefatte e commosse di fronte al cordoglio collettivo nei confronti della morte di don Peppe Diana, vittima del crimine organizzato. Per loro, è come fare un viaggio nel futuro. In Francia, persino la parola mafia è ancora pronunciata a mezza bocca, le vittime sono pensate solo individualmente e il riuso sociale dei beni confiscati è una conquista recente, del 2021.

Durante la cerimonia finale, di fronte all’ingresso del cimitero di Casal di Principe, i nomi delle vittime francesi sono stati aggiunti a quelli italiani delle vittime del crimine organizzato. Se è vero che la morte di don Peppe Diana, trent’anni fa, ha cambiato Casal di Principe e l’Italia intera, oggi siamo tutti un po’ casalesi. Anche chi è venuto da fuori, per imparare come si fa a ri-abitare un territorio.


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