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Virzì: «La mia Italia: precaria, pronta a immaginare un’altra società»

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Nel cinema italiano del Duemila che ha indagato, tra dramma e commedia, il lavoro instabile spiccano per acutezza e amarezza sociale i film del regista livornese. Che, a riguardo, dice: «I miei giovani non sono innocenti, ma vogliono cambiare modello di vita»

Di precariato nel cinema italiano ben prima del Dopoguerra. Lavorativo o morale che fosse, i registi più importanti del nostro Paese si sono più volte cimentati sul tema. Dal Duemila, poi, partendo dagli archetipi neorealista (Ladri di biciclette di Rossellini) e felliniano (I vitelloni), il nostro cinema ha recuperato il filtro sarcastico di Risi (Una vita difficile), Tognazzi (Sissignore) e Monicelli per denunciare una nuova generazione umiliata dallo stesso predatorio sistema economico e politico. Ora come allora, le cineprese nostrane tornano a inquadrare una gioventù sospesa, senza contratti stabili, tutele e diritti, intrappolata in un cunicolo interminabile di affanni, scadenze, concorsi e ingiustizie. Tutte opere che, con toni e registri diversi, riaprono «la ferita a quel segmento più debole della società rappresentato dai giovani», per dirla con il cantore più ispirato del nostro cinema precario, Paolo Virzì (Michaela Ramazzotti, Paolo Virzì, Drammi, sorrisi, bellezza, Conversazione con Italo Moscati, Castelvecchi, 2016).

Marco Ponti inaugurò il secolo con Santa Maradona, accarezzando una coppia di amici sfaccendati e nichilisti allergici al lavoro e alle responsabilità, intrappolati da un ineluttabile senso di fallimento. Era il 2001, i protagonisti del film erano Stefano Accorsi e quel Libero De Rienzo (David di Donatello al miglior attore) che si unirà, poi, alle beautiful minds di Smetto quando voglio, la fortunata trilogia (2014-2017) di Sydney Sibilia. Tre film che, tra farsa e commedia, seguono un manipolo di geniali ricercatori quarantenni umiliati dall’università. Reinventatisi spacciatori di droghe artificiali, le migliori menti d’Italia prendono a intascare vagonate di soldi incarnando un cinema dalla morale capovolta, dal tono ora cinico ora grottesco, saldato dal pessimismo sociale di Sibilia che, giocando di sponda con Monicelli (I soliti ignoti), compone il suo Breaking Bad corale tra la Sapienza e il carcere, e firma una delle poche narrazioni cinematografiche capaci negli ultimi anni di perforare l’immaginario collettivo.

Tra le penne di Smetto quando voglio c’è anche quel Valerio Attanasio che nel 2018 sceneggia e dirige Il tuttofare, sincopata tragicommedia su un giovane aspirante avvocato schiavizzato dal principe del foro, il professor Salvator Toti, un Sergio Castellitto in versione mostro che ammicca alla vulcanica cialtroneria di Vittorio Gassmann.

Anche Gianni Amelio, intanto, nel 2013 aveva ballato sul doppio filo dramma-commedia con L’intrepido Antonio Albanese “rimpiazzista” a giornata, perfino a ore, dei lavori altrui nella Milano preda della crisi finanziaria. Negli stessi anni, poi, dal web il tema era stato sospinto verso la farsa con risultati invero non sempre brillanti (Addio fottuti musi verdi dei The Jackal e i The Pills di Sempre meglio che lavorare), mentre Daniele Vicari aveva scelto il dramma per raccontare il tragico sacrificio di una barista pendolare di Torvaianica in Sole cuore amore (2016).

Ma, come accennato, a Paolo Virzì si deve ascrivere, forse, il ritratto più sconfortato, accurato ed empatico della generazione precaria. Tra il 2008 e il 2012, il figlio più illustre della commedia all’italiana ha sceneggiato (con il fido Francesco Bruni) e diretto due storie dolceamare di sfruttamento e umiliazione: Tutta la vita davanti e Tutti i santi giorni. Al centro, rispettivamente, Marta e Guido, entrambi colti (laureata su Heidegger lei, paleografo lui), innamorati e idealisti ma costretti a svendere i propri sogni per una gretta stabilità lavorativa: centralinista di ripiego la ragazza incarnata da Isabella Ragonese (altro ruolo precario dopo quello nel film di Vicari), portiere d’albergo, invece, il personaggio a cui dà corpo e voce Luca Marinelli. 

Tutta la vita davanti è ispirato a Il mondo deve sapere, romanzo di Michela Murgia che fu anche coinvolta nella sceneggiatura: «una voce formidabile nella battaglia contro il potere» l’ha definita lo stesso Virzì. Un film che analizza, per il regista «lo straziante destino della filosofa brillantemente laureata in Heidegger che finisce per vivere l’esperienza del call center, che all’inizio è fantasmagorica, ma anche buffa, e poi si rivela però essere una crudele pratica di sfruttamento» .

Quello del cineasta livornese, infatti, è spesso un cinema di futuri incompiuti, dove la commedia amara è il filtro d’indagine prediletto per denunciare un eterno precariato che assume varie forme, spesso interpolate: è sentimentale quello di Guido alle prese con una paternità difficile in un contesto che squalifica la sua erudizione; è ideologico quello di  Sandro, intellettualoide veterocomunista che presagisce l’avanzata del berlusconismo in Ferie d’agosto; è morale quello di Martino, protagonista di N (Io e Napoleone), un insegnante dai grandi ideali rivoluzionari che parte per assassinare il generale transalpino, ma finisce per esserne sedotto (e abbandonato); è cinematografico quello di Antonio, Luciano e Eugenia, giovani sceneggiatori prodigio che, arrivati a Roma, tra slanci, manie e miserie di un cinema italiano al canto del cigno, finiscono invischiati nell’omicidio del produttore che avrebbe dovuto finanziarli, mentre fuori dai set impazzano le Notti magiche dell’Italia pallonara anni Novanta.

Insomma, quelli che diffondono cultura in un Paese che fa di tutto per eliminarla sono gli sconfitti per eccellenza per Paolo Virzì. Laureati, insegnanti, scrittori. Spesso squinternati, comunque misconosciuti da un sistema economico che li ricatta tra una supplenza a ore, un concorso truccato e una sudatissima sceneggiatura mai girata. Costretti a ingoiare quell’Ovosodo che «non va né in su né in giù», a pensarci bene «neanche loro sono innocenti, né sono eroi a tutto tondo», ammette il cineasta, «però viene voglia di fare il tifo per loro, per chi ha la forza e l’energia di voltare pagina e di immaginare una società che si scrolli di dosso un modello di vita, di comportamento, un modo di consumare, di lavorare, di viaggiare che evidentemente non sta più in piedi».

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