L’orgoglio, in Veneto, è una cosa strana. C’è il sole e il mare, ma non è la Puglia. Ci sono le Alpi e il vino buono, ma non è il Piemonte. C’è pure la nebbia come in tutta la Padania, ma qui si chiama caìgo e si taglia con il coltello. Da un parte è la meta turistica più visitata d’Italia e dall’altra è la seconda locomotiva economica del Paese dopo la Lombardia: un conglomerato di siti storici e preistorici di altissimo valore affiancati a immense distese di capannoni senza soluzione di continuità e con un consumo di suolo tra i più elevati d’Italia.
Noi veneti, poi, siamo fatti di opposti come la nostra terra: in larga parte credenti, ma famosi per essere i più blasfemi bestemmiatori (con buona pace degli amici toscani); gelidi con i foresti, ma basta il tempo di arrivare alla grappa e siamo caciaroni come pochi (e se parli veneto te si uno de nialtri, a prescindere dal colore della pelle); grandi ciacoloni, ma cintura nera di fatte i cassi tui quando si tratta di ignorare pratiche politiche poco trasparenti, come gli scandali degli ultimi decenni e i risultati elettorali che ne sono seguiti hanno dimostrato; grandi lavoratori, ma cascasse il mondo non si tarda per lo spritz. E che se lo bevano i milanesi a più di sei euro a bicchiere, per la gioia degli alpini che poche settimane fa hanno invaso Vicenza per l’adunata nazionale.
Poi – dispiace per i conterranei progressisti – le elezioni non mentono: il Veneto è un po’ come il Texas, una miscela tanto di liberismo economico ai limiti dell’anarco-capitalismo e odio per l’Agenzia delle entrate quanto di conservatorismo spinto e pseudo-secessionismo quando si tratta di valori. La tradizione, infatti, in Veneto assume contorni mitici come la sua storia.
La Serenissima e la lingua veneta
Sebbene negli ultimi anni sia in lieve declino, l’uso del dialetto è pervasivo e si estende ben oltre i confini domestici. C’è talmente tanto orgoglio nell’uso del veneto che viene usato in ambito lavorativo a tutti i livelli, e capita sovente che gli impiegati pubblici debbano fare sfoggio della sua comprensione con la propria utenza. Tuttavia – con buona pace dei conterranei più duri e puri – sebbene il veneto sia riconosciuto come lingua da alcuni organismi, dal punto di vista accademico la questione è dibattuta, per usare un eufemismo. Al netto delle fantasiose teorie sul presunto sostrato venetico, cioè proprio della lingua parlata dai veneti preromani poi del tutto assimilati, il veneto attuale è un derivato del latino al pari di tanti altri dialetti della penisola, e nemmeno il più diverso dall’attuale italiano di derivazione toscana.
Il dialetto, o lingua veneta che dir si voglia, è un elemento essenziale dell’orgoglio regionale. In generale c’è un fortissimo senso di identità, legato a doppio filo con il destino della Serenissima Repubblica di Venezia. Potenza indiscussa dei mari durante il medioevo, ricchissima e capace di deviare intere crociate per i propri interessi, la sua storia millenaria ha influito sullo sviluppo di tutto il nord est italiano e di tanti altri possedimenti nel Mediterraneo. Tuttavia, è in Veneto che ha lasciato l’impronta più profonda, con un senso di revanscismo diffuso dovuto alla restaurazione post-napoleonica. Il Veneto, o meglio il Lombardo-Veneto, fu infatti oggetto del mercanteggiare delle potenze vincitrici e fu dato all’Austria in cambio del cattolico Belgio, segnando la fine definitiva di qualsiasi speranza di un ritorno della Serenissima.
Tuttavia, nemmeno due secoli abbondanti di dominazione straniera – se vogliamo considerare anche quella italiana come tale – sono stati sufficienti ad annacquare un orgoglio patriottico veneto sviluppato nel corso dei suoi 1100 anni di storia. Il leone di San Marco, simbolo della Serenissima, è ovunque: dalla bandiera regionale alle piazze cittadine, dalle rotonde stradali alle tante case di privati cittadini che lo espongono, si tratta di un simbolo che vuole ricordare gli antichi fasti, ma che negli ultimi decenni è stato fatto proprio dalla politica.
Da orgoglio veneto a feudo politico
Negli ultimi decenni l’orgoglio patriottico dei veneti è sfociato in manifestazioni alquanto folkloristiche. La più nota e derisa è forse la posticcia occupazione di piazza San Marco a Venezia del 1997, da parte di alcuni indipendentisti a bordo di una sottospecie di mezzo blindato artigianale, soprannominato tanko. I Serenissimi, così si facevano chiamare, occuparono il campanile di San Marco e issarono la bandiera con il leone alato, per poi essere sopraffatti in pochi minuti dai Carabinieri e gettati in gattabuia, dopo alcune trattative non andate a buon fine. Può sembrare il goffo tentativo di una banda di cialtroni, e lo sarebbe, se non fosse che i soggetti in questione erano armati con residuati bellici della Seconda guerra mondiale comunque funzionanti (a differenza del tanko, disarmato).
Sta di fatto che l’indipendentismo si è fatto sempre più strada in Veneto all’indomani di Tangentopoli. La Liga Veneta prima e la Lega federale poi gettarono benzina sul fuoco del «Roma ladrona», slogan che andava per la maggiore sui muri di mezzo Veneto tra gli anni Novanta e i primi Duemila. Poi, lentamente, un pezzo alla volta, l’indipendentismo venne svuotato da una Lega divenuta forza di governo e consapevole dell’irraggiungibilità di tale risultato. Non più indipendenza, quindi, ma autonomia.
Il Doge
A incarnare questo cambio di obiettivo è oggi il governatore del Veneto Luca Zaia, eletto con percentuali bulgare al suo terzo mandato quattro anni fa, in piena pandemia. Zaia è stato il principale fautore di uno dei più auto-evidenti sprechi di denaro pubblico regionale degli ultimi anni: il referendum consultivo del 2017, dal costo preventivato di 14 milioni di euro a carico della Regione, attraverso il quale il Consiglio regionale si impegnava a discutere entro novanta giorni il risultato del seguente quesito: «Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?». Che, tradotto in veneto suona un po’ come «vuto schei?».
Il quorum venne superato e vinse il sì. Chi l’avrebbe mai detto.
Oggi, dopo sette anni dal referendum (del tutto privo del benché minimo vincolo legale, in quanto consultivo), ventinove di Lega sempre presente nelle stanze del potere regionale e trenta in numerosi governi nazionali, non è cambiata una virgola.