«Non un mare, ma una successione di mari. Non una civiltà, ma una moltitudine di civiltà ammassate l’una all’altra». Così, nel 1987, Fernand Braudel tentava di definire il mar Mediterraneo, al contempo bussola e chiave di volta delle aspirazioni di centinaia di civiltà nei secoli, per molti aspetti diversissime fra di loro. Per l’Italia, Mare Nostrum non è stato solo un bacino di irradiazione dei propri interessi, ma anche il luogo delle più cocenti disillusioni in politica estera, dall’impresa coloniale in Libia alla disastrosa campagna bellica in Nordafrica durante la Seconda guerra mondiale.
Il vecchio dualismo da prima repubblica fra la fede euroatlantica di Giovanni Spadolini e lo slancio mediterraneo di Giulio Andreotti non sarebbe sopravvissuto alla fine del sistema bipolare. Con poche eccezioni, fra cui la Missione Alba, l’Italia avrebbe parzialmente sacrificato la propria proiezione in nome di un maggiore riconoscimento nella sfera continentale. Oggi, confrontato a nuovi interrogativi sul proprio ruolo di attore rivierasco, il nostro Paese è chiamato ad aggiornare la propria riflessione strategica in sintonia con una nuova centralità della questione mediterranea, fra crisi vecchie e nuove, rompicapi irrisolti e necessità di un’azione multilaterale in Europa.
Mediterraneo, mare d’immmigrazione
Chi dice Mediterraneo, dice immigrazione: l’Alto Commissario Onu per i rifugiati stima in circa 144mila i tentativi, nell’arco del 2022, di approdare sulle coste europee attraverso le rotte mediterranee. Tuttavia, proprio la retorica con cui la migrazione viene presentata al pubblico e gestita rischia di consegnare una cattiva diagnosi del problema. «Le migrazioni non sono un’emergenza, ma un dato strutturale del pianeta, che come tale va considerato», spiega Marco Minniti, ex ministro dell’ Interno, oggi presidente della Fondazione Med-Or di Leonardo. Sono una componente fondamentale dell’evoluzione dell’umanità. Finora ha prevalso un approccio emergenziale, il che rende necessario un cambio di paradigma».
Minniti evidenzia le variabili che più impattano sul fenomeno migratorio: «L’elemento demografico conterà moltissimo. Non sarà possibile pensare di controllare, limitare i flussi, che smetterei di chiamare tali, trattandosi di movimenti. Inoltre, sono in corso nel mondo due guerre, di cui una nel Mediterraneo, e una serie di conflitti locali o civili di cui spesso ci dimentichiamo. Penso alla guerra civile in Sudan, con un milione di profughi che hanno già lasciato il Paese. Anche i cambiamenti climatici possono produrre nuovi spostamenti, suscettibili di interessare decine di milioni di persone. L’esigenza di ogni nucleo umano di migliorare le proprie condizioni di vita e la condizione di cittadini del mondo in cui si identificano molti millennial è un segnale positivo. Favorire e governare l’immigrazione legale e contrastare quella illegale diventerà inevitabile. Nel momento in cui il mare che separa Europa e Africa è anche lo specchio di un enorme squilibrio demografico, in cui un continente vive una recessione e l’altro un’esplosione, non ci sono muri che tengono».
«I vasi finiranno per comunicare. L’aspetto virtuoso dei canali legali sta proprio nella possibilità sia di fornire risposte ai Paesi di arrivo, disperatamente bisognosi di manodopera, sia di favorire un dialogo costruttivo con quelli di partenza e di transito», prosegue l’ex ministro dell’Interno, che poi cita un caso non strettamente mediterraneo: «Nel 2022 l’India ha ricevuto circa cento miliardi di dollari di rimesse dai suoi migranti lavoratori in giro per il mondo. Il Nepal ha un rapporto fra popolazione e rimesse dei migranti del trecento per cento, il più alto al mondo. Dialogare con i Paesi di partenza significa anche poter contare su queste fonti di finanziamento».
Nuove opportunità per canali virtuosi d’immigrazione
Se un motivo di preoccupazione c’è, non si trova dunque in un’inesistente emergenza immigrazione, ma nella progressiva destabilizzazione del continente africano, in grado di avere un impatto sul Mediterraneo. «Dopo il golpe militare in Niger, ultimo di una sequenza che ha interessato tutta l’Africa nord-orientale e la già delicata situazione del Sahel, uno dei primi provvedimenti assunti dalla giunta al potere è stata la cancellazione della legge sul contrasto al traffico di esseri umani, frutto di un accordo stretto nel 2015 con l’Unione europea. Essendo retroattiva, questa abrogazione ha coinciso con l’ordine di scarcerazione per tutti i condannati in forza di quella legge. E la posizione del Niger altro non è che uno snodo cruciale tra i Paesi di partenza e quelli di transito», analizza ancora Minniti, sottolineando come Africa ed Europa siano legate da un comune destino.
«Macron stesso lo ha ammesso: la Françafrique non esiste più. Tradotto: nessun Paese si salva da solo, che sia l’Italia, la Germania o la Francia. Un piano di sostegno economico, purché dotato di risorse immediatamente spendibili, sarebbe già una strategia indiretta per affrontare l’immigrazione». Proprio su possibili vie concrete per potenziare l’immigrazione legale tiene a soffermarsi Minniti: «Occorrerebbe individuare nelle nostre reti diplomatiche la cassa di risonanza della volontà di lasciare il proprio Paese. Non si può continuare a lasciare ai trafficanti la raccolta delle domande. Punto di partenza dovrebbe essere un accordo di cooperazione bilaterale tra lo Stato di partenza e quello di arrivo, inquadrato in un più ampio patto fra Unione europea, Unione africana e nazioni. In attesa del viaggio, le strutture consolari potrebbero incaricarsi di erogare ai partenti corsi di lingua, cultura e formazione professionale. Agevolare la conoscenza della realtà di arrivo è un primo modo di integrare. Perché le politiche di integrazione sono un tassello imprescindibile delle politiche di sicurezza». Un messaggio a quelli che Minniti stesso non esita a definire «mercanti della paura», in politica e non solo, tanto impegnati a lucrare sui crimini e sui giacimenti di odio che hanno seminato il terrore in Occidente.
Il pivot egiziano
Un altro vasto interrogativo che interessa il bacino del mar Mediterraneo sta nella frammentazione regionale degli attori e dei contesti statuali locali, a maggior ragione quando essa assume forme di guerra guerreggiata. Che, secondo Minniti, non esenta i Paesi di relativa stabilità, esposti o circondati da vari focolai di conflitto: «La pressione senza precedenti in corso sul valico di Rafah deve indurci a pensare che anche per l’Egitto esiste una linea rossa. Quando al-Sisi intima a Israele di non riversare i profughi di Gaza nel Sinai lancia un monito, lasciando intendere che lo considererebbe come un atto di ostilità». La tradizionale avversione dell’establishment politico egiziano per i Fratelli Musulmani non ha impedito a Il Cairo di intrattenere un dialogo con Hamas, ma «non bisogna dimenticare il ruolo di al-Sisi nel rovesciamento del suo predecessore, Mohamed Morsi, espressione diretta delle fazioni islamiste radicali».
Per i vertici che esprimono l’attuale leadership egiziana, secondo l’ex inquilino del Viminale, la possibile incubazione di un islamismo radicale in prossimità dei suoi confini è tutt’altro che rassicurante. Una prospettiva che, sommata all’onere di circa trecentomila profughi dal Sudan in arrivo e al rientro calcolato di buona parte degli egiziani in Libia dopo l’inondazione abbattutasi sulla Cirenaica, disegna un quadro in cui l’Egitto è Paese chiave, ma tutt’altro che al riparo da pericoli. «Paese chiave, non fosse altro per gli sforzi che sta dispensando nella costruzione di un dialogo fra il mondo arabo e Israele:l’Italia non può permettersi di non considerarlo tale in ogni suo piano inerente alla regione mediterranea», aggiunge. Senza dimenticare il contenzioso diplomatico sorto con la tragica morte di Giulio Regeni. In tal senso, «che la procura di Roma abbia potuto rinviare a giudizio i presunti responsabili dell’omicidio è un segnale di forza per la diplomazia italiana», spiega Minniti. «Possiamo continuare a lavorare a un disegno di pacificazione del Mediterraneo, anche in collaborazione con Il Cairo, di cui quattro agenti di intelligence sono imputati sotto giurisdizione italiana».
Quale missione storica e politica per l’Italia?

Molto più variegata e complessa, ma determinante, è la partita che le leadership saranno chiamate a giocare nella ricerca di un percorso di pace duratura per il bacino, che – secondo l’ammiraglio Enrico Credendino della Marina Militare italiana – è libero da dispute o conflitti in un esiguo venti per cento della sua estensione complessiva. Per l’ex ministro, «il Sud globale sarà il nuovo protagonista delle relazioni internazionali di domani» e, in tal senso, «le vicende del 7 ottobre hanno rilanciato, anche agli occhi dei più ciechi, una centralità del Mediterraneo che già prima esisteva». Come punto di congiunzione fisico, oltre che politico internazionale, tra il Sud globale e l’Occidente, il Mediterraneo è un contesto da cui non si può prescindere per costruire un sistema internazionale in grado di prevenire i conflitti.
Sulla posizione italiana, il presidente della Fondazione Med-Or, che da anni promuove un tessuto di relazioni proficue tra Roma e il Mediterraneo allargato, spiega: «Come Paese al centro del Mediterraneo, la missione storico-politica dell’Italia può trovarsi proprio nel ruolo di apripista di un nuovo rapporto tra Europa, Africa e Mediterraneo allargato, pur nella consapevolezza di dover coinvolgere tutti gli alleati. Un piano di stabilizzazione, prosperità e crescita economica dell’Africa non può che rappresentare il seguito naturale del tanto citato piano Mattei. Per il rilievo che può avere, il piano Mattei deve avere un respiro europeo. Anche se, al momento, l’Europa non è in campo. La guerra in Medio Oriente testimonia di un’Unione europea più interessata a dividersi in fazioni che a sviluppare un protagonismo continentale. La deliberazione del Consiglio europeo e l’assunzione di una comune posizione sulle pause umanitarie non è neanche entrata in discussione in sede di Assemblea Generale Onu». Insomma, in assenza di quella che George Marshall in tempi non sospetti definì «multilateralità dell’Europa», è a dir poco inverosimile che anche il “piano Mattei” – iniziativa assunta dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni per ridare slancio alle relazioni tra l’Italia e il continente africano, dal nome dell’ex presidente dell’Eni – possa sostanziarsi in qualcosa di concreto come, per esempio, una soluzione per l’annosa questione degli approvvigionamenti energetici.
L’ora di archiviare i litigi da cortile
Interpellato a tal proposito sui frequenti scontri fra Italia e Francia, Paesi egualmente implicati dai destini di Africa e Mediterraneo, Minniti replica: «Al di là del rapporto di amicizia storica, con il trattato del Quirinale Italia e Francia hanno scelto una special relationship nel quadro europeo di cui sono Paesi fondatori. La relazione bilaterale è decisiva tanto da farmi pensare, ora come non mai, che sia necessaria una cooperazione rafforzata ad hoc, con l’orizzonte del Mediterraneo allargato. Da estendere anche alla Spagna, possibilmente, nell’obiettivo di includere l’intera Europa. I tre grandi Paesi europei affacciati sul Mar Mediterraneo hanno il dovere di assumersi questa responsabilità». Come archiviare, allora, la sostanziale rivalità fra le fazioni appoggiate da Italia e Francia in Libia? «Questa fase di competizione strategica può dirsi terminata. Non è neanche il caso di ricorrere alla metafora della pagina da voltare, perché a girare pagina è stata la Storia. A dieci anni dall’inizio di quella guerra, né Francia né Italia contano in Libia. Sono Russia e Turchia a tirare le fila. Poiché abbiamo parlato del Niger, è anche il caso di dire che la decisione della giunta di cancellare le missioni di partenariato militare con l’Ue e il possibile avvio di negoziati per un memorandum con la Russia dice molto su chi potrebbe sopperire a un’assenza europea».

Per una divisione dei compiti con gli Stati Uniti
Persiste, comunque, un dilemma in grado di influenzare lo sviluppo di un protagonismo europeo e autonomo nel Mediterraneo allargato: il rapporto con gli Stati Uniti, principali alleati e “assicuratori sulla vita” di molti Paesi europei attraverso la Nato. «È inutile girarci intorno. Anche qui, la Storia ha voltato pagina: nel lungo periodo, il ruolo di protagonista del Mediterraneo allargato potrà spettare solo all’Europa, non agli Stati Uniti», spiega l’ex ministro. «Non parlerei di competizione, ma di complementarità, ai fini di una cooperazione di cui l’Europa dovrebbe rendersi fino in fondo protagonista. I primi ad averne bisogno sono proprio gli Usa, dal momento che ciò consentirebbe loro di poter mantenere e portare a compimento una scelta strategica irreversibile, con bussola nel Pacifico. Una collaborazione non paritetica, ma consustanziale, tra le realtà che rappresentano in maniera più forte le democrazie nel mondo, su due aree geografiche cruciali. Si potrebbe aggiungere che tutto ciò andrebbe fatto prima delle elezioni americane del novembre 2024, dal momento che una vittoria del repubblicano Donald Trump richiederebbe un immediato aggiornamento della riflessione sugli equilibri planetari»