di Gabriele Ragnini
Tutto parte da giù. La terra, le radici, la Sicilia. Da lì, Marco Castello ha saputo arrivare a tutti. O perlomeno a chi si è lasciato inglobare dal suo mondo: un nucleo di energia dallo spiccato accento siracusano che, anche al di là del telefono, si espande con un lunghissimo «ciao!» e travolge subito.
Un anno di successi, a seguito della pubblicazione di Pezzi della sera (il suo secondo album uscito lo scorso settembre), e un’estate con 19 date in giro per l’Italia contornano il profilo di un musicista e cantautore che a 31 anni ha preso il decollo. Ma quando viene interrogato sulle risposte ricevute dal pubblico in queste settimane, gioca subito la carta della goliardia per restare ben piantato a terra. «In realtà non ci capisco niente, e onestamente non me ne frega un cazzo», rimarca burlesco. «Di sicuro sta andando benissimo. Ma durante i festival non si ha davvero la percezione di quanta gente sia lì per te e quanta per qualcun altro». Sarà difficile per Marco Castello intuirlo anche a Poplar, il prossimo appuntamento in programma dal 12 al 15 settembre, dove si esibirà al parco naturale del Doss Trento.
Basta una chiacchiera per ritrovare la leggerezza delle strumentali e il brio dei testi, spesso scanditi da modi di dire, gag e meme in siciliano, su cui Castello scivola tra le note a mo’ di via di fuga. Una sorta di commedia dell’arte fatta musica. «Ho passato tutta la vita ad ascoltare musica inglese senza capirci un cazzo. Mi sono detto: ma se i napoletani cantano nella loro lingua da tutta la vita, perché non può farlo un siracusano? Io, poi, mi metto sempre in dubbio. Se non mi capita di avere sempre qualcosa di intelligente da dire, allora canto qualsiasi cosa. Non prendermi sul serio fa il suo effetto sul pubblico e mi diverte».
Soprattutto se si prova a emergere dal fango di una scena che rischia di diventare stagnante. «Dicono che non bisogna trattare certi temi nei testi, così si finisce per parlare sempre delle stesse cose. Non posso parlare di amore se non sono innamorato». Ma nel repertorio tematico di Marco Castello i pilastri restano gli scorci di vita quotidiana, dalle istantanee che raccontano Siracusa a ricordi e situazioni private. Qualche volta sì, anche quelle sentimentali.

Megghiu Suli? Forse no, ci dice Castello
Lo spettro musicale di Marco Castello si estende soprattutto nelle produzioni. Dalla chitarra alla tromba, passando per la batteria: la sua capacità di balzare tra gli strumenti lo rende del tutto imprevedibile, anche all’interno delle stesse canzoni, spesso sviluppate in un climax crescente come in Narrazione. «Questo senso di anormalità che si prova quando qualcuno suona tante cose diverse vale solo per il pop. In tutto il resto dell’iceberg che si trova sotto l’acqua, per chi ha studiato musica, è normale. Il problema è che siamo abituati a chi non ha studiato. Per me la priorità non è mai stato imparare a suonare questo o quell’altro, ma la musica».
Soprattutto se le scelte di vita portano a questo. «Sono cresciuto con tutti i miei amici lontano da casa, è stato comodo potermi arrangiare. Anche a casa, prima di avere i gruppi del liceo, mi chiudevo nella stanzetta e mettevo le mani su ogni strumento. È imbarazzante però pensare sia una cosa assurda, siamo abituati ad avere canzoni che suonano di nulla».
Pezzi della sera è il primo album da indipendente di Marco Castello, uscito sotto la sua etichetta Megghiu Suli. L’ennesima dimostrazione della voglia di autoprodursi. Basta aprire i riconoscimenti degli ultimi brani per leggere solo un nome: il suo. Ma nello stesso anno, intanto, sono fiorite collaborazioni come quella con l’italo-brasiliano Selton in Loucura o con la rapper Ele A (leggi qui la sua intervista) in Mentre il mondo esplode, all’interno dell’album di Mace, Māyā. Siamo sicuri, allora, che sia meglio da soli? «In realtà no, non lo è mai. Bisognerebbe sempre essere aiutati e accompagnati da gente che ti sappia valorizzare. Devono avere l’obiettivo di non metterti da parte, rispettare le tue urgenze. A me questo non era accaduto con le persone con cui lavoravo in precedenza».
La scelta di diventare indipendente, allora, sembrava ormai obbligata. «È un po’ come se l’industria gastronomica avesse come unica via quella del McDonald’s o delle multinazionali, senza un’alternativa artigianale. Invece nel percorso della ristorazione ci sono miliardi di possibilità: perché nella musica sembra che l’unica sia la major?».
Popolari, ma a che costo?
L’amarezza si fa sentire soprattutto quando gli viene chiesto – un po’ come raccontato con le parole della zia citata in Polifemo – se andrà mai a Sanremo. «Quella canzone era stata scritta proprio per essere portata lì. Uno dei vari motivi per cui sono stato contento delle mie strutture precedenti è che c’era spesso questa tentazione: “Quest’anno ti porteremo a Sanremo”. È una delle cose per cui ti tengono per le palle. Avevo immaginato di cantarla lì. “La zia mi chiede quando vado a Sanremo”, e io ero lì. In quel momento c’era stata apertura ad artisti che fino a qualche anno fa non mi sarei immaginato in un contenitore come il Festival. Avevo voglia di andarci, ho pensato: “vuoi vedere che qualcosa sta cambiando?”».
Eppure l’incantesimo, per Castello, si è rivelato un’illusione. «Era un hook, un amo per accalappiarsi tutto il pubblico più giovane. Poi hanno rimesso dentro un sacco di schifezze: ho guardato le ultime due edizioni e non rappresentavano nulla per cui sarei stato felice di esserci».
La popolarità, alla fine, non ha tardato ad arrivare. Nonostante un marchio fortemente identitario, il cantautore 31enne rappresenta, insieme ai tanti artisti del Sud che portano il proprio folklore al di là dei confini locali – spesso arrivando alla viralità -, uno dei protagonisti di questa sorta di nuova primavera mediterranea.
«La più grossa tendenza pop che c’è stata a livello mondiale negli ultimi vent’anni è stato l’hip hop, che nasceva con l’intenzione di raccontare un po’ la vita di strada, povera, di chi era incazzato e voleva denunciare qualcosa. Mi sembra naturale che da posti in cui queste situazioni sono più accentuate vengano fuori anche le voci più interessanti, sincere e credibili». E vale per ogni realtà italiana. «Se penso a tutta la scena del rap napoletano, Napoli è sempre stata in prima linea. Anche nel revival della disco, ciò che piace a me come quello che fanno i Nu Genea, Napoli è fortissima. E lo era già negli anni Settanta, aveva dei musicisti incredibili: Napoli Centrale, Pino Daniele, che non avevano nulla da invidiare ai musicisti che invece avevano inventato questa cosa oltreoceano».

La primavera mediterranea per Marco Castello
Un’evoluzione simile a quella avvenuta nella sua terra. «Se consideriamo tutto quello che sta uscendo e venendo fuori dalla Sicilia o dal Sud in generale, è altrettanto ricca la situazione». L’avanzare di generi e artisti che prima sarebbero rimasti nelle retrovie della scena italiana si deve, per Castello, al cambio di passo del mercato discografico. «Semplicemente fa un po’ più di notizia il meridione perché forse finora, a parte veramente due o tre nomi, non c’era niente che venisse da qui; o comunque, anche se c’era, faceva fatica a venire fuori. Quello che prima era indipendente e underground rimaneva underground. Mentre adesso a cominciare dall’indie, diventato un nuovo pop, è molto più facile diventare un prodotto più in vista rispetto a chi magari quindici anni fa sarebbe rimasto sconosciuto».
Guardare al Sud è diventata una tendenza ormai consolidata per chi cerca ispirazione o per i semplici ascoltatori. Una sorta di nuovo estro culturale e sociale che può degenerare in un’appropriazione indebita, soprattutto sul piano turistico. «Di base, ognuno potrebbe stare benissimo a casa sua. La questione dell’invasione nordica, in questo momento, è un problema enorme». Lo stesso vale per l’ambito musicale: «Anche a livello artistico è fondamentale raccontare sé stessi: secondo me, non bisognerebbe andare a trovare qualcosa altrove. Quello che devi cercare per essere credibile ce l’hai dentro di te. Poi è chiaro che collaborazioni e amicizie vanno fatte e si portano dietro a prescindere da dove sei nato, ma è una questione extra-territoriale». E allora largo alle nuove leve che si fanno spazio dalla propria terra, come Marco Castello. Senza però calpestarne le radici.