Per le strade d’Europa le edicole hanno le serrande chiuse. Per trovarne una aperta capita spesso di dover cambiare quartiere, talvolta comune. Giornali che chiudono, redazioni centralizzate. Giornalisti precari che scrivono per hobby e redattori che faticano ad arrivare alla fine del mese. Governi che dettano la linea editoriale alle testate, minacciando la loro indipendenza e talvolta la loro stessa esistenza. Sono solo alcuni dei dati emersi dallo studio Uncovering news deserts in Europe curato dai ricercatori dello European Institute di Fiesole Sofia Verza, Tijana Blagojev, Danielle Borges, Jan Kermer, Matteo Trevisan e Urbano Reviglio con il sostegno dell’Unione europea.
Da quando, all’inizio degli anni Duemila, negli Stati Uniti i giornali locali hanno cominciato a chiudere i battenti, si è cominciato a parlare di local news desert. La perifrasi include tutte quelle aree che rischiano di non essere coperte dalle notizie e in cui l’accesso all’informazione per i cittadini è sempre più difficoltoso. È un fenomeno anche europeo? «La situazione in Ue è diversa rispetto a Paesi come Stati Uniti o Canada, più estesi e meno densamente abitati», spiega Sofia Verza. «Per questo abbiamo pensato che la definizione dovesse essere arricchita». Nello studio, i ricercatori hanno tenuto in considerazione cinque variabili che concorrono alla formazione di un local news desert: la granularità del territorio, il mercato per i media locali, la sicurezza lavorativa dei giornalisti assunti, l’indipendenza editoriale e l’inclusività sociale. Non tutti i Paesi forniscono dati aggiornati: l’Italia è tra questi, dunque le mappature che hanno redatto sono parziali e fondate su dati preesistenti al momento della ricerca. I risultati emersi sono variegati, come la comunità europea: «Il problema trasversale a tutte le testate locali è che non sono profittevoli. Alcuni Stati come Francia e Svezia hanno deciso di intervenire fornendo un grosso supporto pubblico. C’è chi critica questa misura perché si creano economie zombie che vanno avanti solo grazie alle sovvenzioni statali», spiega la ricercatrice. Altri giornali, invece, hanno deciso di centralizzare le redazioni, riducendo al minimo l’organico in quelle periferiche, con il risultato che quando succede qualcosa di grosso spesso si fa riferimento a freelance o a inviati che non conoscono il tessuto sociale in cui si muovono. «Nel 2011», racconta Verza, «il presidente ungherese Viktor Orbán ha abolito tutte le sedi locali del servizio pubblico nazionale, che ora non esiste più».
Un altro problema riguarda la scarsa propensione dei cittadini a pagare per l’informazione: «Sebbene il fenomeno sia diffuso in tutto il campione indagato, in Europa orientale la tendenza è maggiore. In quei Paesi i cittadini sono da sempre abituati a leggere le notizie gratuitamente: si stampa un foglio che è paragonabile ai nostri free press, quindi non c’è l’abitudine di spendere per l’informazione locale», commenta la ricercatrice. Anche la precarietà dei giornalisti minaccia la sopravvivenza dei media locali: in Croazia lo stipendio medio di un cronista assunto oscilla tra i 500 e i 700 euro mensili e per i freelance la situazione è ancora più drammatica. Per non parlare del fatto che chi lavora a livello locale è più esposto a querele temerarie senza che i giornali possano sostenerne le relative spese legali. Ci sono però eccezioni: «In Svezia e Olanda, ad esempio, la fiducia nei media locali è molto alta e i giornalisti sono protetti dalle loro comunità di riferimento», spiega Verza.
Nel mare di dati che non fanno ben sperare nel futuro dell’informazione, secondo la ricercatrice c’è una luce in fondo al tunnel: «Abbiamo visto che ci sono grandi innovazioni in termini di formato con cui vengono diffuse le notizie locali, soprattutto quelli nativi digitali come podcast, video e newsletter. Spesso le testate che mettono in pratica queste innovazioni fanno sì che i giornalisti si mettano in rete e la competizione passa più in secondo piano». Ci sono numerosi media indipendenti che secondo l’esperta fanno un lavoro eccellente, come IrpiMedia in Italia o il Dublin Inquirer nella capitale irlandese: entrambi hanno ottenuto dei finanziamenti dall’Unione Europea nell’ambito del progetto Local Media for Democracy.
Per quanto la situazione del local news desert non abbia ancora raggiunto i livelli statunitensi, l’allarme c’è: senza le adeguate contromisure, non solo l’informazione di qualità sarà a rischio, ma potrebbe esserlo la resistenza stessa delle democrazie.