In Italia, il 39 per cento dei giornalisti attivi è freelance. Di questi, solo un under 30 su quattro fattura più di 20mila euro l’anno: una cifra che permette di sopravvivere, non certo di vivere dignitosamente. La crisi economica dell’industria giornalistica è sempre più profonda: le redazioni hanno subito tagli pesanti e per chi oggi si affaccia alla professione il lavoro dipendente per una testata è sempre più una chimera. Per questo si fa sempre più importante la collaborazione tra i freelance che cercano di fare strada nel mondo giornalistico.
La collaborazione tra freelance contro la crisi
«La crisi è ormai strutturale da quasi 20 anni», ci dice Alice Facchini, giornalista che ha curato il reportage Come ti senti per Irpi Media, analizzando le problematiche di salute mentale all’interno della professione giornalistica. «È normale che certi standard di benessere economico siano irreplicabili. Rimane però chiaro che, al netto della crisi dei grandi quotidiani, non è accettabile far lavorare i propri collaboratori male, troppo e in condizioni degradanti». Data la scarsità di contratti, i freelance devono cercare di vendere i loro servizi a più testate, spesso non ricevendo risposte da chi lavora in redazione. Questa situazione – come evidenziato dal reportage – genera una forte crescita del disagio mentale e la sensazione di essere soli. «Per sopravvivere nell’ambiente ci sarebbe bisogno di una coscienza di classe», continua Facchini. «Il ricatto del lavoro, infatti, è ancora molto utilizzato, ma da dopo la pandemia la consapevolezza di dover vivere più serenamente e l’ingresso di nuove generazioni che non sono workaholic stanno cambiando le prospettive. I freelance hanno bisogno di fare rete, capire che i problemi propri sono quelli di tutti e aiutarsi».
La competitività può essere benevola in alcuni settori, ma non certo nel mondo del giornalismo freelance: dover mandare pezzi a varie testate, comprendere chi nelle redazioni lavora bene e quali paghino una cifra consona al tempo speso dal giornalista non è un’operazione che una persona può fare da sola, nascondendo i suoi segreti a tutti gli altri che si trovano nella stessa posizione. È invece un lavoro collaborativo e di contatti, aiutati da alcune novità che il giornalismo sbarcato sul web ha potuto creare: più testate per cui scrivere, anche molto più settoriali rispetto a prima, e quindi maggiore possibilità che i tuoi pezzi vengano selezionati, con una possibilità di fare rete che esula dal gruppo di conoscenti e può puntare a unire il maggior numero possibile di freelance.
Il caso di Lavori per chi scrive e Senza Redazione
Negli anni sono nati vari progetti sul tema, come Lo spioncino dei freelance, che ha reso pubbliche le tariffe di quasi tutte le principali redazioni mettendo i giornalisti davanti alla possibilità di scegliere più consapevolmente a chi inviare la proposta di un pezzo, o FADA, collettivo di giornalisti freelance italiani che si sono uniti per sviluppare reportage su diverse aree del mondo, anche in collaborazione con colleghi esteri. Un altro progetto è quello di Lavori per chi scrive, una newsletter curata da Cristiana Bedei che settimanalmente aggrega le possibilità lavorative di chi fa della scrittura la sua professione, oltre a far conoscere nomi e cognomi di redattori a cui poter inviare proposte su determinati temi.
Bedei ha avviato il suo progetto, che ora ha più di settemila iscritti, senza sostegno finanziario. Chi vuole può donare per far sì che possa crescere. «La base di partenza di Lavori per chi Scrive è stata il mio rientro in Italia dall’Inghilterra», ci racconta Bedei. «Quando lavoravo lì, era piuttosto chiaro chi dover contattare all’interno delle redazioni per proporre un pezzo e format come la mia newsletter erano già presenti nel mercato giornalistico. In Italia questo mancava e ancora oggi la situazione non è molto migliorata». Basta aprire LinkedIn, infatti, e geolocalizzare la richiesta di lavoro giornalistico in un Paese anglosassone, come il Regno Unito o gli Stati Uniti, per vedere molte offerte di lavoro, dipendente o meno, promosse dalle redazioni, con ben evidenti i compensi per i pezzi o i contratti. Allo stesso modo, geolocalizzare in Italia l’offerta di lavoro giornalistico provoca risultati quasi nulli e il sistema rimanda a tipi di professioni vicini a quella cercata, come il copywriting o i lavori di ufficio stampa. Dopo il successo della newsletter, Bedei ha dato vita a un ulteriore progetto, Senza Redazione, che è nato invece con lo scopo di essere un contenitore in cui sia presente tutto quello che può tornare utile alla vita di un freelance, come consigli di esperti, indicazioni sui compensi e un gruppo LinkedIn nato con lo scopo di creare una community, e quindi di fare rete, basandosi sulla collaborazione tra le persone. Oggi entrambi i progetti sono gratuiti per il consumatore finale e Senza Redazione dà alle aziende la possibilità di pubblicare inserzioni sponsorizzate sul sito e costruire accordi di partnership.
Non bisogna quindi vedere il giornalismo digitale soltanto come l’atomizzazione di persone che non possono più essere supportate da una redazione forte. «Negli ultimi anni il mondo del giornalismo si è aperto e ha reso possibile lavorare anche lontano da Milano e Roma, i due principali centri italiani di informazione», continua Bedei, «e le redazioni si stanno rendendo conto che hanno estremo bisogno dei collaboratori esterni: se il rapporto diventa più bilaterale e ognuna delle due parti si concepisce come utile all’altra, allora le cose potranno migliorare. Esistono nuove testate, soprattutto digitali, che già propongono una visione più aperta rispetto agli attuali modelli di business, in decadenza». Ci troviamo di fronte a una rivoluzione: fare giornalismo non è un mestiere individuale e senza il supporto di una redazione il modo migliore di crescere è la collaborazione con altri professionisti. Il ruolo di tante piattaforme digitali è quindi quello di mettere in connessione le individualità.