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Lampedusa, l’isola ormai dimenticata

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Conosciuta nel mondo per i naufragi al largo delle sue coste e diventata un simbolo di accoglienza dei migranti che approdano alle sue coste dopo aver attraversato il Mediterraneo, Lampedusa è anche il teatro della battaglia quotidiana di chi la abita, che lotta per un futuro in un luogo in cui si sente dimenticato

Appena si scende dall’aereo per la prima volta e si cammina per le vie della città si ha l’impressione di trovarsi in un luogo in cui il tempo si è fermato. Sull’isola di Lampedusa le case sono basse, con i tetti piatti, color beige e terracotta dappertutto. Le strade sono ricoperte da un leggero strato di sabbia chiara, su cui riflette il sole. Nella città c’è una strada principale, che negli anni si è modernizzata per diventare un luogo accogliente per i turisti. Negli ultimi decenni il corso si è riempito di bar e negozi, che vendono qualunque gadget con la tartaruga, ormai diventata il simbolo dell’isola. Per trovarla, è necessario allontanarsi dall’Italia e dalla Sicilia, oltrepassare Malta, fino a che, abbastanza vicino alla Tunisia, eccola lì: Lampedusa. La sua posizione a metà strada tra Africa e Italia l’ha resa negli ultimi decenni teatro di naufragi o soccorsi di emergenza in mare. La porta d’Europa: questo vede, scorgendo le sue rocce, chi affronta la traversata su un gommone, dopo ore senza mangiare nulla, nel terrore di morire da un momento all’altro. Questo è, per loro: salvezza, vita.

Lampedusa è un luogo di vita per i suoi abitanti e i turisti, ma è stato anche teatro dei più tragici naufragi per i migranti che cercano di raggiungere l’Europa attraversando il Mediterraneo. È entrata nel dibattito nazionale ed europeo per le politiche migratorie, per l’inasprimento delle frontiere, per l’inadeguatezza del suo hotspot di prima accoglienza. È diventata un luogo in cui l’accoglienza ha preso diverse forme, come se fosse la sua ragione di vita: il museo delle migrazioni, opere architettoniche dedicate all’accoglienza o alla commemorazione dei naufraghi, murales che ne rappresentano l’umanità. Eppure, sull’isola la gente vive, lavora e conduce la sua esistenza senza che l’immigrazione ne sia la ragione, mentre al porto Favarolo sbarcano centinaia di migranti, scortati dalla Guardia costiera. Dalla terrazza che affaccia sul porto si vede tutto: una tragedia umana a qualche centinaio di metri, mentre la serata continua e nessuno smette di bere il suo drink. Forse per gli abitanti di Lampedusa questa situazione è parte della quotidianità. Oppure, invece, è più facile riconoscere Lampedusa come luogo di transito per i migranti, dimenticandosi delle persone che ci vivono, con tutte le loro fatiche.

«I lampedusani soffrono molto questa situazione», racconta Luisa (nome di fantasia, come tutti gli altri che seguono), che è nata e cresciuta sull’isola e da anni lavora in Comune. «Tutte le volte che ci sono state delle emergenze gli abitanti sono scesi per strada ad aiutare chi era appena sbarcato, aprendo persino le proprie case. Però quest’isola ha già tanti problemi di suo. I lampedusani non sono razzisti, ma alle volte diventa una situazione insopportabile con cui convivere, perché siamo costretti a condividere quelle poche risorse che abbiamo e che non bastano neanche per noi. Ad esempio: a Lampedusa non esiste un ospedale. Anche nel caso di un parto è necessario prendere l’eliambulanza della Croce Rossa per andare all’ospedale di Palermo. Ma quando io sto per imbarcarmi perché iniziano le contrazioni e arriva un’emergenza più grave, come una donna migrante rimasta ustionata dal carburante del gommone su cui ha fatto la traversata, è chiaro che io su quell’elicottero non ci salirò mai».

«Nessuno in quest’isola è contrario all’accoglienza», sottolinea Rebecca, stagista rientrata da qualche mese sull’isola dopo anni di università a Firenze, «però è chiaro che quando non ci sono servizi di base neanche per gli abitanti è difficile essere disposti a condividere». 

«Sembra che Lampedusa sia diventata un territorio di trasferte per giornalisti e Ong, che dopo aver finito il lavoro se ne vanno, dopo aver scritto la loro storia spariscono nel nulla», continua Luisa «Però con tutto questo viavai, secondo voi è stato creato qualcosa che potesse parlare anche ai lampedusani? Qualcosa che li rendesse partecipi di essere involontariamente direttamente coinvolti in questa crisi umanitaria, in questa strage di vite umane? È come se ci si dimenticasse che l’isola ha una sua vita, dei suoi abitanti, che con tutte le fatiche portano avanti le loro vite. Non è difficile trovare persone qui sull’isola che non comprendono il fenomeno migratorio e si rifugiano nei luoghi comuni, sentendosi abbandonate da un governo e da dei concittadini che sembrano molto più disposti ad aiutare chi arriva dal mare che loro».

Molti lampedusani si sono abituati a questa situazione, cercando di “sfruttare” il fenomeno migratorio come un’occasione di sopravvivenza. «Ma siamo sicuri che ci sia qualcosa anche quest’anno?». «Io spero proprio di sì, ogni anno con gli eventi del 3 ottobre riusciamo a chiudere l’anno in verde. Sarebbe una tragedia per noi se non si facesse nulla». «Non so voi, ma io sono preoccupato, non ho sentito nulla, temo davvero lo abbiano annullato», ci raccontano. Gli autisti degli hotel, radunati all’uscita dell’aeroporto in attesa dei clienti da accompagnare in albergo, sembrano preoccupati. A seguito di un naufragio del 2013 in cui hanno perso la vita 368 persone, la data del 3 ottobre è diventata la giornata della memoria e dell’accoglienza dei migranti. Da quando è stata istituita, nel 2016, ogni anno a Lampedusa si tengono eventi e manifestazioni, che portano anche politici, artisti e attivisti sull’isola, prolungando la stagione estiva di qualche giorno.

«Se sono felice di essere tornato? Beh, Lampedusa è sempre casa mia, ma c’era un motivo se a vent’anni me ne sono andato, trovandomi un lavoro tanto lontano da qui». Non riuscendo più a fare il pescatore, Pietro ha deciso di provare a buttarsi in quello che hanno fatto un po’ tutti i suoi concittadini: il turismo. Ha venduto il peschereccio di famiglia e si è preso una barchetta con cui portare i turisti a fare tour dell’isola. Pietro ama il mare, significa casa per lui, e fare giri in barca con i turisti gli piace di più di una vita a spaccarsi la schiena per pescare. Però non è così facile riuscire a lavorare: a Lampedusa la stagione dura per cinque mesi al massimo e la concorrenza è tanta. Tutte le sere, dopo cena, Pietro va sul corso, con i suoi volantini stampati e un cartellone. Li allunga ai passanti, sperando che lo chiamino la mattina seguente per poter uscire. Non è facile la vita del pescatore, ma neanche questo lavoro lo è. Non c’è uno stipendio fisso e ogni sera diventa una lotta per accaparrarsi abbastanza clienti per il giorno dopo.

Ci sono tanti aspetti nascosti della quotidianità di chi vive questa situazione emergenziale. «Uno dei problemi più grossi sono i pezzi delle barche che naufragano e non vengono raccolte», racconta Pietro. «Sai quante volte le mie reti da pesca si sono stracciate perché rimanevano incagliate in un pezzo di albero o una trave portante? Noi siamo un popolo di pescatori: lasciare pezzi di barche nel mare mette a repentaglio il nostro lavoro, la nostra sopravvivenza e la sopravvivenza di questa isola. Come è possibile che nessuno se ne renda conto e ci aiuti? Da tutto il mondo vengono ad aiutare i migranti, ma a noi isolani pensa qualcuno? Mi piacerebbe che, quando sui giornali si parla di Lampedusa, ci si ricordasse anche di noi, che soffriamo per la mancanza di servizi e di futuro. Anche noi avremmo bisogno di aiuto, così come lo hanno le persone che arrivano su dei gommoni e sbarcano al porto Favarolo».

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