Eccoci con un nuovo Te lo legge Prismag, con La Pelle del Mondo di Collettivo Montag, edito da Il Saggiatore.
Spesso mi capita che – a volte più, a volte meno – scherzando dica ai miei amici più stretti di essere a un passo dalla psicosi spirituale.
Saranno i media che consumo che manipolano le mie visioni: le signore indiane che si dimenano non appena vengono toccate dall’acqua santa su TikTok. Riconoscermi in Andrew Garfield di Under The Silver Lake (condividiamo pure il nome). Quella volta che entrai in fissa con i tele-evangelisti e scoprii che alla fine non avevano buone intenzioni, ma ascoltavo comunque interessato; come all’esame di Analisi del discorso, full immersion nelle orazioni dei dittatori. Che pensieri che ho avuto.
Ora immaginiamoci in un futuro prossimo: sono Tommaso Moreschi e sto perdendo l’uso di una mano. La mano è lì, eppure è un peso morto attaccato al polso. Si scoprirà più avanti nel resoconto dello S.c.r.i.b.a. che è sclerosi, con malformazioni cutanee simili a fenomeni di necrosi, e si attaccherà a molte parti del corpo. Decido dunque di affidarmi alle utopie prostetiche della mia combriccola. Mi faccio convincere da un credo, mi faccio promettere un futuro dove sopravvivo.
Mettiamo infatti che i miei colleghi siano il Circuito: coloro che hanno intenzione di creare l’umano “altrimenti”. La cricca del Circuito rappresenta le diverse vie attraverso cui l’umanità può tentare di superare sé stessa: un’utopia di perfezione e una spirale di degrado. Loro litigano, sono un gruppo in costante negoziazione di un “altrimenti” che è al contempo promessa e condanna.
Alla fine, il centro del tutto era questo: chi avrebbe avuto accesso al programma, chi sarebbe rimasto indietro, chi avrebbe deciso. Invero, a Tommaso interessa solo salvarsi la pelle. Oscilla più volte tra le fazioni del suo gruppo. Tra chi vede l’elite dell’umano altrimenti prevaricare sull’uomo così com’è; tra chi vorrebbe che tutte e tutti possano essere solidarmente ibridati; e gli altri che proponevano soluzioni intermedie, sperimentazioni a piccoli gruppi. Non scelse mai chi del Circuito seguire. Ma una cosa la fece: percorse la strada più umana, quella di decidere di non morire.
Certe storie non si raccontano per il piacere di raccontarle. Non si leggono per il sollievo di averle lette. La pelle del mondo del Collettivo Montag è una di queste. È un romanzo che ti porta dentro la testa di Tommaso, mentre si racconta con il rancore di chi è rimasto troppo umano. Lo seguiamo mentre discute con il Circuito e scambia pezzi di sé – nel mentre la malattia avanza – con olodermide e protesi, fino a restare una spina dorsale. Diventiamo Tommaso mentre condivide i suoi pensieri disconnessi, fiduciosi e umani con S.c.r.i.b.a., un’intelligenza digitale mutevole e ingannatrice grazie interfacce dialogiche (come: d-34-x, umano-prete-confessore; d-178-jl, umano-psicoanalista-relazionale).
Tommaso non è un eroe, non è un martire. Eppure, tra gli impianti che si guastano e le protesi che richiedono manutenzione, resta un’eco di ciò che è stato. Un’ombra di pelle vera, di dolore autentico. E forse è questo il vero orrore: non la trasformazione, ma la dimenticanza. Scelse di partecipare al programma per la sua ossessione e di titolare la sua trascrizione La pelle del mondo. Scelse la pelle, come lui superficiale, vigliacca. Leggiamo dunque un romanzo che si impone come un referto clinico della condizione umana, un archivio di memorie che si scrivono e si cancellano in tempo reale, tra l’ossessione per il corpo e la nostalgia di una carne che non sa più sentire.
Montag scrive in modo libero, senza protezioni, senza illusioni. Un diario clinico che si sfalda in frammenti, in conversazioni spezzate, in referti che dicono troppo e non dicono niente. Tommaso racconta la sua trasformazione con un distacco che è quasi una preghiera. Ma pregare chi, se Dio è stato rimpiazzato da un algoritmo?
Nel misurare La pelle del mondo del Collettivo Montag, si scopre un’opera che sfida ogni logica narrativa, quasi come se si volesse mappare l’orizzonte incerto tra la fragilità dell’essere e la promessa dell’uomo altrimenti. Il romanzo ci conduce in un labirinto di voci, forme e registrazioni – un mosaico in cui il linguaggio, solenne e scientifico, diventa blasfemo mentre ci si interroga sul senso dell’identità e del corpo. La narrazione si trasforma tra epistole, dialoghi filosofici, sceneggiature, flussi di pensiero, persino chat quasi da intelligenza artificiale, e mette in scena una realtà frammentata, in cui ogni forma di espressione diventa una tessera di un mosaico complesso e contraddittorio.
Questo salto tra forme vuole problematizzare ogni aspetto dell’essere umano: la sua natura, la sua condizione e la sua storia personale. Il testo ci propone una serie di domande che si snodano lungo la scia di un interrogativo inesorabile: cosa resta dell’identità quando la carne è sostituibile, quando la mente può essere programmata e il corpo è solo un progetto in continua trasformazione? Cosa accade quando la biologia cede il passo alla programmazione, quando il dolore non è più un segnale, ma un bug da correggere? La pelle del mondo non offre risposte definitive, ma ci spinge a interrogarci sul valore del corpo, sull’essenza del sé e sul prezzo dell’evoluzione tecnologica. Una lettura che, pur nella sua complessità, risuona come un grido che per quanto incerto, è profondamente umano.
Spesso mi capita di pensare che, per quanto cerchiamo di riscrivere l’umano, alla fine restiamo sempre a un passo dal riconoscerci in ciò che siamo stati. Tommaso, con il suo corpo in transizione, con i suoi pensieri che si intrecciano con le logiche di un’intelligenza artificiale, è il riflesso di questo paradosso. Eppure, proprio come quelle signore indiane su TikTok o come Andrew Garfield che vaga tra i segreti di una città decadente, anche lui resta aggrappato a un ideale, a uno spirito che man mano si dissolve, ma che continua a esistere nella memoria e nella pelle che si ostina a sentire.