Il mondo aziendale sta vivendo una profonda crisi nei confronti dei programmi di diversità, equità e inclusione (DEI). Sebbene siano sempre più numerose le imprese che si dotano di certificazioni e programmi interni volti a promuovere ambienti lavorativi inclusivi, spesso queste iniziative rischiano di diventare semplici formalità, perdendo di vista il vero significato che le anima. A descrivere questa situazione è Irene Facheris, formatrice, scrittrice e attivista femminista, nota sui social come Cimdrp. «Questi corsi vanno fatti più perché sono un’imposizione dei management delle grandi aziende legate a incentivi economici che per un reale convincimento di chi li attua e propone ai suoi dipendenti», spiega Facheris. Si tratta, in altre parole, di un obbligo percepito spesso solo come una formalità e non come una reale opportunità di crescita e trasformazione aziendale. Il rischio è che tutto si riduca a «una serie di clic vuoti davanti a un computer», senza un vero coinvolgimento emotivo e culturale da parte dei partecipanti. «All’inizio si inseriva tutto in un grosso calderone: omo-lesbo-bi-transfobia e razzismo», racconta l’attivista sottolineando come, nel corso degli anni, le tematiche si siano evolute e approfondite. «Oggi, grazie a una maggiore consapevolezza e alla quarta ondata femminista e al suo impatto soprattutto online, riusciamo ad affrontare argomenti più specifici, come il linguaggio e l’intersezionalità delle discriminazioni». Un approfondimento che permette una maggiore efficacia, ma non risolve il problema della scarsa partecipazione interna.
Per Facheris, infatti, un altro nodo cruciale è l’aspetto volontaristico che caratterizza questi programmi: «Se vuoi fermarti un’ora in più per organizzare una cosa, sono affari tuoi. Le aziende fanno il minimo indispensabile per ottenere la certificazione annuale». È raro trovare dirigenti che promuovano attivamente la partecipazione dei dipendenti. Quando succede, però, si registra un netto miglioramento delle adesioni: «Quando trovi un amministratore o amministratrice delegato/a illuminato/a che manda una mail dicendo: “Vi consiglio caldamente di partecipare”, le presenze salgono», spiega la formatrice. Uno dei problemi principali è proprio legato ai vertici aziendali: «Spesso chi ha più potere pensa: “Questa cosa la so già”. Se così fosse, sarebbero i primi a partecipare», commenta Facheris. Un atteggiamento sintomatico di una resistenza culturale molto radicata, difficile da smuovere con la semplice formazione obbligatoria. L’attivista mette anche in luce un altro aspetto critico: la polarizzazione politica globale e i suoi effetti sul mondo aziendale. Secondo Facheris, infatti, il recente clima politico conservatore, simbolicamente rappresentato da figure come il presidente statunitense Donald Trump, rischia di compromettere ulteriormente gli sforzi fatti fino ad oggi: «L’ondata trumpiana del “togliamo tutto ciò che non è maschio bianco, etero, cisgender” arriverà anche qui», afferma. «In Italia ci sono alcuni obblighi di legge, per ora, ma sappiamo che le leggi non sono scritte per sempre e potrebbero cambiare». Secondo l’attivista, molte persone aspettano con impazienza la possibilità di abbandonare queste tematiche, viste come inutili o fastidiose imposizioni: «Credo che alcune persone saranno estremamente contente di smettere di occuparsi delle libertà degli altri».
Tuttavia, per un vero cambiamento che non sia solamente superficiale o temporaneo, Facheris suggerisce un cambiamento radicale ai vertici di imprese e istituzioni: «Se vogliamo un cambiamento organico, bisogna mettere al potere persone che subiscono discriminazioni, perché così avranno sicuramente un occhio di riguardo». L’intersezionalità e la rappresentanza autentica sono dunque condizioni necessarie per un reale cambiamento culturale e aziendale. Facheris, pur lavorando in questo settore da oltre un decennio, ammette di avere poche speranze per un futuro positivo in assenza di cambiamenti strutturali e sostanziali. E la sfiducia cresce anche perché spesso queste tematiche vengono percepite come superficiali o non essenziali dalle figure di potere all’interno delle aziende.
Secondo Facheris, uno dei nodi cruciali dell’attivismo contemporaneo consta nella necessità di uscire dalle proprie bolle di appartenenza per realizzare un vero cambiamento collettivo e sociale. «Molto spesso queste bolle non proteggono, ma escludono. Anche per questo ho deciso di tenere un podcast, Tutti gli uomini, nato proprio dalla necessità di rompere questi schemi comunicativi limitanti. Abbiamo un problema evidente di violenza maschile contro le donne. Non è che ci picchiamo tra noi: sono gli uomini che agiscono violenza, per questo dobbiamo parlarne direttamente con loro. Come ne parlo, se abbiamo capito che una certa modalità non funziona più? Dobbiamo assolutamente trovare un’alternativa. Anche se questo significa dover ascoltare continuamente voci maschili nella mia testa per molto tempo». Non tutte e non tutti, però, apprezzano questa apertura: «Alcune persone, però, non vogliono assolutamente che questo spazio diventi accessibile a tutti. Preferiscono poter dire “io ho la tessera” piuttosto che vedere il proprio ambiente riempirsi e diventare inclusivo davvero. Questo è un grosso problema nell’attivismo contemporaneo: quando la priorità diventa l’ego personale e non più la causa che stiamo sostenendo».
Il cambiamento, secondo Facheris, richiede un importante lavoro di autocritica interna agli stessi gruppi di attivisti: «Appena si è in due persone scattano dinamiche di potere. Non possiamo far finta che, siccome ci occupiamo di attivismo, allora non esistano questi problemi. È necessario che chi fa attivismo si impegni costantemente a monitorare e discutere queste dinamiche interne, creando spazi di confronto e autocritica. Questa modalità, tuttavia, è spesso sottovalutata o completamente assente, tranne che in alcuni collettivi particolarmente evoluti che lavorano davvero in modo egualitario e condiviso».
Nonostante queste difficoltà interne, per l’attivista il lavoro come formatrice nelle aziende e la sua attività personale come attivista non si contraddicono affatto, anzi si completano e arricchiscono reciprocamente: «L’attivismo non è qualcosa che semplicemente faccio, ma qualcosa che sono in maniera profonda e personale. Le competenze che ho acquisito nel mio lavoro, come la pazienza e la capacità di spiegare in modo chiaro e accessibile, le porto con me anche al di fuori dell’orario lavorativo. Nessuno mi paga per il femminismo, diciamo così, entry level, che faccio su Instagram, ma certamente quel lavoro beneficia direttamente delle mie competenze professionali maturate nel tempo».
La sfida futura per chi opera nella DEI, secondo Facheris, è trovare modalità più efficaci per coinvolgere attivamente tutti i dipendenti, indipendentemente dal ruolo aziendale, e fare in modo che queste iniziative non siano soltanto un obbligo burocratico, ma una concreta occasione di crescita personale e aziendale. «Bisogna provare a fare questo, anche se aprire una bolla significa renderla meno esclusiva», chiosa, invitando così il mondo aziendale e gli stessi attivisti a riflettere sull’importanza di dialogare, di creare spazi inclusivi e, soprattutto, di non fermarsi mai nella lotta per una vera e autentica inclusione.
Intervista di Mariafrancesca De Martino per Turbìne e Andrea Marsili per Prismag