Nella cultura dottrinale di tradizione cattolica l’orgoglio è uno dei sette peccati capitali (o, ancora peggio, vizi). Schiere di santi, padri e madri della Chiesa hanno da sempre annoverato l’orgoglio come l’origine di tutti gli altri vizi capitali, in modo molto simile a quella che i classici greci chiamavano hybris, la tracotanza, il desiderio dell’uomo di essere come Dio, se non superiore.
Quando il movimento Lgbtqia+ globale nacque nel 1968 a New York, dopo anni di violente soppressioni poliziesche, da subito si pensò al gay pride, una parata annuale tra le strade del West Village di Manhattan, come esercizio di libertà e di ribellione che la comunità metteva in atto per gridare al mondo che almeno un giorno all’anno non ci poteva essere spazio per la paura. I movimenti cristiani americani di estrema destra, insieme alla Chiesa cattolica americana, italiana, spagnola e non solo, videro in quella parola – pride, orgoglio – una piccola spia accesa che per la prima volta nella storia stava sfidando l’assetto culturale che la cristianità aveva costruito in due millenni. C’erano già stati l’illuminismo e altre correnti di pensiero, poetiche e letterarie ad aver messo in discussione l’ordine filosofico delle cose in Occidente, ma mai nessuno aveva osato celebrare l’orgoglio dell’essere diversi e ribelli in modo così plateale, in un anno, il 1968, che sembrò capovolgere tutto anche sul piano istituzionale e politico, con le strade di mezza Europa e America inondate di studenti inferociti contro il sistema.
Gli apparati religiosi, che all’epoca vantavano di poter misurare il polso della società ancor più della politica, capirono con astuzia che mettere alla gogna la comunità Lgbtqia+ sarebbe stata una mossa semplice, incisiva, doverosa e soprattutto, a parer loro, profondamente cristiana. Migliaia di giovani ragazzi gay, lesbiche, transgender scelsero di uscire allo scoperto nei loro posti di lavoro e con i loro familiari semplicemente chiedendo di essere riconosciuti per ciò che erano. Ma agli occhi degli omofobi, questa fierezza poteva essere declinata come orgoglio nella peggiore accezione possibile. Da come la storia è stata poi studiata, è chiaro che nessuno voleva sostituirsi né a Dio, né alle gerarchie istituzionali e religiose. Nessuno voleva prendere il posto di nessuno. Non era una nuova forma di hybris. Si trattava di uomini e donne stanchi di essere sopraffatti da secoli di soprusi, sevizie e torture fisiche e psichiche, oltraggi umani indicibili. Il ’68 di New York fu il primo appello disperato di persone che volevano essere trattate come tutte le altre.
A distanza di più di 60 anni, il Pride di giugno di New York (sia chiaro, non più gay pride) non è più una manifestazione di protesta, come siamo abituati ancora a vedere in Italia, ma una parata di gioia e ricchezza culturale, una festa che attira decine di migliaia di turisti ogni anno, come le altre parate storiche della festa del Ringraziamento, di Natale o di Halloween. Le strade di Manhattan e Brooklyn si tingono di arcobaleno; per almeno una settimana ogni locale e spazio di socialità prova a entrare nello spirito del tema. Nella maggior parte dei posti di lavoro si organizzano talks, piccole conferenze e incontri per valorizzare gli impiegati Lgbtqia+ e le loro storie di coraggio e, talvolta, di discriminazione.
Mentre nelle città statunitensi (con rare eccezioni europee, Londra, Amsterdam, Parigi e Madrid in testa) il Pride è motivo di celebrazione di vite umane fiorite e strappate per sempre alla violenza, in Italia stiamo ancora vivendo la fase della rivendicazione. Per la stragrande maggioranza della politica, inclusa una buona componente del centrosinistra, il Pride, inteso come fierezza e non come orgoglio tracotante, non è necessario. Per questi pensatori, è lecito accostare le sfilate dei Pride a delle “carnevalate” senza arte né parte. Stupisce che in Italia il carnevale e l’eccentricità vengano condannati e invocati solamente quando a portarli in strada è la comunità Lgbtqia+, mentre in occasione di vittorie di campionati e altre competizioni internazionali di calcio tutto sembra lecito (solo per citarne i più recenti, abbiamo visto di tutto e di più quando l’Italia trionfò agli Europei nel 2021 o quando il Napoli vinse lo Scudetto nel 2023, eppure nessuno si è lamentato).
In un Paese, il nostro, in cui la comunità Lgbtqia+ ha conquistato in 50 anni di lotte solo le unioni civili, scendere in strada e ballare è l’unico modo che si ha per rispondere a una politica che su questi temi non muove un dito. Per una persona Lgbtqia+, marciare in un Pride italiano significa poter affermare , almeno un giorno all’anno, «io esisto, ho bisogno di essere riconosciut*».
Centinaia di italiani figli di coppie gay e lesbiche – bambini e bambine amatissimi, nati e cresciute in amorevoli famiglie – non hanno il diritto di avere riconosciuti dallo Stato entrambi i genitori sulla carta d’identità. Questa apparente banalità rende la loro vita, e quella dei loro genitori, complicata e a tratti spaventosa. Un tema non solo di diritti negati, ma anche di soldi: solo coppie gay e lesbiche benestanti possono permettersi di concepire figli all’estero, dato che in Italia per loro ogni mezzo di questo tipo è vietato e criminalizzato, da maternità surrogata a fecondazione assistita. Le persone transgender italiane sono tra le più discriminate, marginalizzate e sessualmente abusate d’Europa. Anche se l’Italia vanta una storia squisitamente unica circa le donne transgender in politica (Marcella Di Folco è stata la prima persona transgender al mondo a essere eletta a una carica pubblica, nel suo caso come consigliera comunale a Bologna) assistiamo oggi a un rigurgito transfobico senza precedenti, anche e soprattutto a livello culturale.
Quest’anno l’Italia è anche scesa al 36esimo posto su 48 Paesi nella Rainbow Map di Ilga Europe, l’organizzazione che monitora la condizione dei diritti Lgbtqia+ in Europa, colorandosi di arancione e segnalando un peggioramento significativo nella protezione legale e nell’uguaglianza per i membri della comunità arcobaleno Questa retrocessione è dovuta a nuovi dati europei che rivelano livelli allarmanti di discriminazione e violenza contro le persone Lgbtqia+, come confermato dal recente Report di Gay Center/Gay Help Line 2024, pubblicato in occasione del 17 maggio, giornata internazionale contro l’omolesbobitransfobia. Il rapporto dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (Fra), noto come EU LGBTIQ Survey III, evidenzia che una persona Lgbtqia+ su due affronta minacce e attacchi ripetuti in molteplici contesti. Questo fenomeno contribuisce all’alta incidenza di homelessness tra i giovani Lgbtqia+, un fenomeno del quale però sembra che nessuno o quasi si sia accorto in Italia: chi è buttato fuori di casa spesso ha paura di raccontarsi e la politica ha deciso che ci sono questioni ben più importanti.
Gay Help Line (numero di emergenza: 800 713 713) e la chat Speakly.org hanno mostrato che l’omobitransfobia non si è arrestata. Su circa 21mila contatti ricevuti nell’ultimo anno, è emerso che il coming out in famiglia ha portato a una risposta violenta nel 32,3 per cento dei casi, con il 27 per cento delle vittime minorenni tra gli 11 e i 18 anni. Gli attacchi a coppie dello stesso sesso in luoghi pubblici sono aumentati del 27 per cento, mentre le rapine violente ai danni di ragazzi omosessuali rappresentano il 5,4 per cento dei casi, con una concentrazione nel Lazio e in Umbria. Il 32,6 per cento delle persone Lgbtqia+ italiane ha subito discriminazione almeno una volta nella vita, con il 64 per cento di questi episodi avvenuti in ambito lavorativo e il 23,6 per cento in ambito sanitario. La discriminazione e la violenza hanno un impatto sociale negativo profondo, accentuando l’emarginazione e la vulnerabilità emotiva, sociale, comunitaria e politica delle persone Lgbtqia+. In particolare, solo il 10 per cento dei circa 400 giovani Lgbtqia+ cacciati di casa riesce a trovare ospitalità in strutture protette come Refuge LGBT+ e Refuge T* – A casa di Ornella. Le strutture che in Italia si occupano di accoglienza sono ancora troppo poche: lo Stato non è ancora intervenuto con decisione e serietà, come invece è già accaduto nel resto dell’Europa occidentale.
Di fronte a questi numeri, come si può paragonare un Pride a un carnevale? Uscire e ballare in strada, stringere la mano ai propri amici e sorridere, commuoversi insieme è l’unico modo che hanno i cittadini Lgbtqia+ italiani di reagire all’odio e alla sopraffazione. Le esternazioni colorate del Pride sono una reazione naturale e diretta di secoli di prigionia spirituale. Dove vi era reclusione, incarcerazione e tortura per le persone queer, oggi c’è fierezza di essere ciò che si è. Ci sono musica e gioia.
Quando il Pride sarà patrimonio di tutti i cittadini – tutti, sinistra, destra, religiosi e non – ci scopriremo un Paese più ricco e benevolo, dove davvero ci sarà un posto di pace per ciascuno di noi.