Sono le tre e mezza di notte. Si sente un suono, acuto, insistente. Giovanni, aprendo a malapena gli occhi, si alza e corre verso il frigo. Apre una Coca-Cola e beve due terzi della lattina tutti d’un fiato. Prende il suo iPhone, apre WhatsApp, rassicura fidanzata e genitori che è tutto a posto, spegne gli allarmi e si rimette a dormire. Passa un’ora e tutto si ripete, ancora una volta, ancora un altro giorno. Il nome è di fantasia, la malattia è reale: Giovanni è affetto da diabete di tipo 1 (T1), una patologia autoimmune incurabile che colpisce il pancreas e, semplificando, distrugge le cellule che producono insulina. Questo ormone, che regola gli zuccheri nel sangue, deve quindi essere introdotto dall’esterno attraverso più iniezioni al giorno o sistemi di somministrazione continua.
«Sono diabetico da quando ho due anni», ci racconta Giovanni, oggi trentenne. «Questo “compagno di viaggio”, chiamiamolo così, è presente in tutte le mie foto, in tutti i miei ricordi. Non si vede, ma c’è: è nelle tasche sempre piene di caramelle e bustine di zucchero, è nelle borse frigo portate ovunque per non far degradare l’insulina, è nelle valigie delle gite scolastiche che mamma mi riempiva con merendine e succhi di frutta di ogni tipo, è in quel filo trasparente che, oggi, spunta fuori dalle tasche dei miei pantaloni». Giovanni, dopo una vita di continue iniezioni, da qualche tempo ha un sistema che fa l’insulina (quasi) sempre al posto suo. «Ho una app sull’iPhone che controlla ogni cinque minuti se sto bene e trasmette i dati a un dispositivo che, tramite intelligenza artificiale e machine learning, somministra l’insulina che mi serve. A volte sbaglia e devo intervenire io, ma la maggior parte delle volte funziona a meraviglia. Ha trasformato un pensiero continuo in una preoccupazione meno assillante. Quando la situazione è critica, poi, il mio iPhone manda una notifica a mia madre, mio padre e alla mia ragazza per segnalare loro che sono in pericolo, così da potermi soccorrere se non rispondo al telefono. La tecnologia non avrà ancora trovato una cura, ma mi ha quantomeno reso la vita più semplice».
Non tutti, però, si affidano a questi strumenti. Il diabete, come altre patologie, è una malattia molto personale e la sua gestione è molto variabile da paziente a paziente. «Io non me la sento di affidarmi a un microinfusore: per me la terapia multiinettiva [più iniezioni al giorno, ndr] fa più al caso mio». A parlare è Giulia Mengolini, giornalista. Da qualche anno, Giulia ha aperto un progetto di divulgazione su Instagram sulla patologia, chiamato Senza zuccheri aggiunti, cui abbina anche un podcast chiamato I Funamboli. Un’espressione che simboleggia la costante e perpetua ricerca, da parte dei pazienti diabetici, della glicemia perfetta: né troppo alta, né troppo bassa. «Il diabete impatta sulla mia vita tutti i giorni, sia di giorno che di notte. La gestione è praticamente tutta a carico del paziente, che deve prendere una marea di decisioni terapeutiche al giorno. Uno studio le ha contate: sono circa 180! È uno stress costante. In un certo senso ti richiede di essere medico di te stesso, obbliga il tuo cervello a comportarsi come l’organo che non funziona più, il pancreas; è come se noi dovessimo mimare costantemente le sue azioni in modo manuale, invece che automatico. Prendiamo centinaia di decisioni vitali tutto il giorno, dobbiamo sempre sapere in anticipo che cosa vogliamo mangiare e in che quantità, se poi si farà sport o meno, se potremo avere una giornata rilassante o no. È un lavoro molto complesso e quotidiano, senza possibilità di ferie. Le persone pensano: “Basta che ti fai l’insulina ed è finita lì”. Non è così, purtroppo».
Giulia, che di anni ne ha 35, ha avuto l’esordio di diabete dieci anni fa. «È stato difficile sentirmi improvvisamente una persona malata. Il giorno prima ero in forze, stavo bene, mi sentivo libera. Rendermi conto che invece ho una patologia cronica e che se dovessi avere una gravidanza questa sarà a rischio, per non parlare poi di tutte le complicanze che possono subentrare negli anni, è una consapevolezza con cui ho imparato a convivere, ma non è facile. Io ci ho messo un po’, ho avuto anche un periodo di rigetto in cui nemmeno mi concedevo di uscire a cena». Per Giovanni, tutto questo non è accaduto. «Avevo due anni quando mi hanno diagnosticato il diabete», ci racconta. «Forse, da un certo punto di vista, è stato un bene che sia successo subito: io non so neanche cosa sia una vita senza malattia. Ogni aspetto della mia esistenza e della formazione della mia personalità è stato scandito dai controlli, dalle analisi continue, dal pesare ogni alimento, dal ricordarsi le punture prima e i boli di insulina poi. A volte mi chiedo se la mia personalità abbia reso la gestione della mia patologia più semplice o se sia stata la mia patologia a rendermi la persona precisa e metodica che sono. Io sono la mia malattia? Non credo avrò mai la risposta».
In Italia sono centinaia di migliaia i pazienti come Giovanni e Giulia, milioni se consideriamo anche chi è affetto da diabete di tipo 2 (T2). L’Italian Barometer Diabetes Report 2024 stima il loro numero complessivo in quattro milioni, il 90 per cento dei quali pazienti T2. Il numero, secondo il report, aumenterà ancora nei prossimi anni, soprattutto tra gli uomini. Nel 2040 si potrebbero aggiungere 600mila casi, influenzati da fattori demografici e sociali come il progressivo invecchiamento della popolazione. «Il diabete di tipo 2 e quello di tipo1 differiscono per numerosi aspetti», ci spiega il professor Riccardo Candido, presidente dell’Associazione Medici Diabetologi (Amd). «Nel T1 ci sono una predisposizione genetica e un fattore ambientale. Questo scatena una reazione autoimmune: il nostro sistema immunitario, il sistema di difesa, non riconosce più come proprie le cellule del pancreas che producono l’insulina, le attacca e le distrugge. Senza insulina, lo zucchero non entra dal sangue dentro le cellule e quindi la glicemia si alza molto. Nel T2, che dipende comunque da una predisposizione genetica, il fattore scatenante è legato all’alimentazione sregolata e alla sedentarietà, che portano a un aumento del peso con comparsa di resistenza all’azione dell’insulina. All’inizio questa viene compensata dalle cellule beta, che producono l’insulina, che iper-lavorano. A lungo andare, però, questo iper-lavoro le fa affaticare e perdono la loro funzione: è lì che compare il diabete di tipo 2».
Qualunque sia il suo tipo, il diabete è associato ad altre patologie significative che impattano sulla qualità della vita e causano costi economici notevoli per il sistema sanitario. Retinopatia, neuropatia, patologie cardiovascolari e renali sono solo alcune delle possibili conseguenze di questa malattia. L’obiettivo della sua gestione, perché dal diabete oggi non si può guarire, è ridurne le complicanze tramite un approccio integrato: per questo ogni anno, il 14 novembre, in tutto il mondo si celebra la Giornata mondiale del diabete. Tra le tante iniziative, l’Amd ha organizzato un convegno al Senato per sensibilizzare sulla questione. «La Giornata è un momento che contribuisce a fare sensibilizzazione e a riportare a galla l’attenzione sulla patologia, di cui si dovrebbe parlare ogni giorno. Il tema quest’anno è “salute e benessere”. Il nostro evento, Facciamo squadra attorno al diabete, vuole sottolineare che la persona con diabete non debba mai essere lasciata sola. Per curarla al meglio ci vuole un lavoro di squadra tra professionisti: diabetologi, infermieri, dietisti, podologi, psicologi, associazioni di volontariato devono cooperare, tutti supportati da istituzioni e politica. Solo creando sinergie tra tutti questi interlocutori e lavorando di squadra si riesce a migliorare la qualità di cura della persona col diabete e far sì che questa non si senta mai sola».
Quello della psicoterapia è un aspetto su cui Senza zuccheri aggiunti interviene di frequente, su Instagram. «Ho conosciuto tantissime persone con diabete e a pochissime di loro, dopo una diagnosi che all’inizio può essere impattante, è stato offerto un supporto psicologico anche solo iniziale in ospedale o in Asl», racconta Giulia. «Io ho pagato una terapia psicologica per tanti anni: è un aspetto importante che, in Italia, è molto sottovalutato ma può fare davvero la differenza. Dopo una diagnosi come questa ti può crollare il mondo addosso. Molto spesso non si hanno grandi informazioni, ti dicono: “Hai una malattia cronica autoimmune, devi farti l’insulina tutta la vita, non c’è cura, ti spiego come si fa e poi vedi il medico” e basta. Dopo pochi mesi, le persone si sentono perse. In molti mi scrivono che dopo vent’anni ancora non hanno accettato la malattia. Questa cosa mi fa stare male. So che ci può essere un’altra via e non tutti hanno le forze, la motivazione o la disponibilità economica per dire: “Ok, faccio questo passo, vado da un terapeuta”. Offrire un primo incontro o una serie di incontri dopo una diagnosi, anche e soprattutto ai genitori che hanno bimbi piccoli che hanno avuto un esordio, potrebbe essere di grande aiuto».
Se è vero che dal diabete oggi non si può guarire, in tutto il mondo la corsa alla cura definitiva sta compiendo passi importanti. Gli esperti da tempo parlano di “ultimo miglio”, riferendosi al raggiungimento di questo obiettivo. Ma quanto è lungo, questo miglio? «È difficile dirlo, non voglio dare false speranze», ci dice il prof. Candido. «La ricerca è ad ampio raggio e su diversi aspetti, dai trapianti di cellule staminali al trapianto di cellule protette dall’eventuale attacco del sistema sanitario senza necessità di terapie anti rigetto, oltre agli anticorpi monoclonali che prevengono il diabete. Alcuni di questi ultimi sono già stati approvati dall’autorità sanitaria americana e presto arriveranno da noi. Sono tutte aree di ricerca che stanno facendo grandi progressi. Prima o poi ci arriveremo: se anche il diabete è già stato sviluppato, e quindi la patologia è già comparsa, con le innovazioni terapeutiche e tecnologiche di oggi si riesce a conviverci con una buona qualità di vita, continuando a coltivare i propri sogni nella quotidianità». Intanto, i pazienti sperano. «Sono sicura che la cura arriverà. Ma non so se io potrò beneficiarne», ci dice Giulia. «Spero che i bimbi che si ammalano oggi tra quindici anni possano vivere una vita senza insulina. Spero che succeda anche a me». «Non so se saremo in vita quando succederà», chiosa Giovanni. «Però, da una parte, lo spero: quantomeno potrò dormire una notte filata senza sentire allarmi. Dopotutto, sono pur sempre un pigro».